Ora che la crisi è finalmente giunta a conclusione, la si può osservare, a futura memoria, con più pacatezza e perfino con serenità ed indulgenza, augurandoci di apprendere qualcosa di più circa quegli ingorghi, anche di carattere soggettivo che, in tali passaggi spesso dirimenti per la vita della collettività, assumono un ruolo più rilevante di quanto solitamente non siamo disposti ad ammettere.

Ovviamente le crisi hanno sempre, palese od occulta che sia, una motivazione rigorosamente politica e come tali vanno esaminate e comprese. Insomma, non si spiegano certo con il carattere delle persone, ma quest’ultimo può introdurre nella vicenda delle nuances, delle note di costume e di colore che possono avere un loro rilievo, talvolta non marginale.

Quest’ultima crisi, ad esempio, ha mostrato un versante, che, se la memoria non mi tradisce, non è mai stato rilevato, dalla stampa e dai suoi vari commentatori, con la stessa insistenza con cui è stato osservato in questa occasione.

C’è chi ha evocato la psicanalisi, chi è ricorso ad altri indirizzi psicoterapeutici, chi si è accontentato di rifarsi alla psicologia del quotidiano, senza avventurarsi perigliosamente in ambiti patologici, ma, ad ogni modo, si è avvertita la necessità di un supplemento di indagine che spiegasse quel qualcosa in più che sembrava sfuggire ad un’analisi che si limitasse alle scontate geometrie della politica.

In buona sostanza, le vicende più controverse, i passaggi più stretti e tortuosi  mettono alla frusta gli attori della scena politica, in modo particolare i leader più esposti, ne mostrano le qualità, le inevitabili debolezze ed i pregi, generano processi di selezione darwiniana e stabiliscono graduatorie destinate a pesare nel tempo.

Insomma, la classe politica, e non solo, è messa alla prova del “quid”. Termine introdotto da Silvio Berlusconi quando ebbe a dire come Angelino Alfano non avesse il “quid”. Cioè l’attitudine ad interpretare efficacemente un ruolo politico di primo piano. 

La caratura, insomma, di ciascun esponente politico, cui concorrono molti versanti: la  competenza, ma anche la sua cultura generale, l’equilibrio psicologico, la capacità di gestire le proprie emozioni, le ambizioni che coltiva, le attese e le speranze, le disillusioni sofferte e gli ideali che accompagnano la sua vita.

Da un politico è giusto esigere rigore e razionalità, ma anche creatività ed immaginazione, capacità di gestire situazioni controverse, una visione che sia in grado di connettere da dove si viene e dove si è diretti, la duttilità necessaria ad interpretare correttamente situazioni ambivalenti, l’attitudine ad una metalettura che sappia cogliere, tra le righe, l’allusione a ciò che resta sottinteso, la destrezza a coniugare un versante con l’altro come in un ideale iper-testo degli eventi e degli accadimenti.

Insomma, c’è una vasta gamma, una pluralità di fattori soggettivi che fortemente incidono sugli sviluppi della vicenda politica, spesso a dispetto della consistenza in sé delle questioni in gioco. Il che non è per nulla sorprendente,  dato che la politica, per quanto abbia, quando le ha, le sue logiche, in nessun modo può ridursi a qualcosa  di asettico che la privi delle passioni che la muovono.

Fortunatamente ne sono protagonisti  gli uomini con le loro virtù ed i loro difetti, non gli algoritmi che la ingesserebbero in un “rigor mortis”, antitetico a quella vitalità che, per quanto così spesso confusa, prorompe pur sempre dal vissuto concreto della “polis”.

Peraltro, la politica vive sotto la luce cruda ed impietosa dei riflettori, sollecita la voglia di protagonismo, seduce l’amor proprio e quanto più invita ad “esternare”, tanto più la qualità di un politico la si evince anche dalla sua capacità di contenere e “moderare” sé stesso.

Vi sono momenti, nella vita dei partiti, grandi o piccoli che siano, ed a maggior ragione, delle  alleanze o delle coalizioni, in cui determinati incontri, i cosiddetti “vertici”, le verifiche o i caminetti di una volta, avrebbero bisogno di essere condotti o almeno accompagnati da un consulente esperto in dinamiche di gruppo.

Può succedere, ad esempio, che un soggetto egocentrico diventi, in qualche modo, contagioso. Innesca, senza volerlo, un crescendo competitivo che smaschera la stessa attitudine narcisistisca latente in altri convenuti. Siamo complicati, spesso opachi a noi stessi e la politica, grazie alla visibilità che offre, diventa, in qualche occasione, il palcoscenico ideale su cui cercare quelle compensazioni che ci si illude possano medicare la ferita delle frustrazioni, delle umiliazioni, delle attese deluse che, a torto o a ragione, ciascuno si porta appresso.

C’è chi se la cava sublimando in vario modo oppure trasferendo sui figli, a costo di rovinarli, le speranze disattese in cui si è incagliata la propria vita. C’è chi non trova una via di fuga e si cuoce, si arrovella tra sé e sé, a rischio di avvitarsi in una spirale ascensionale, dal cui apice può finalmente guardare dall’alto di un aristocratico distacco quella comune e banale umanità su cui si è fatalmente elevato.

Ma come si deve intendere più esattamente questo  indistinto, indefinito “qualche cosa”, in carenza del quale  un  politico non sarebbe effettivamente tale ed, in ogni caso, si vedrebbe costretto ad accontentarsi delle seconde o terze file? In ultima analisi, niente di più e niente di meno di una “quintessenza”, cioè un “che” di impalpabile, inafferrabile, eppure tutt’altro che evanescente, anzi sostanziale e costitutivo di quel “savoir faire” che, in politica, distingue un ”cavallo di razza” da un ronzino.

Ad un tempo, dono di natura e portato culturale di studi e di esperienze. Istinto e consapevolezza di sé. Intuizione ed insieme pacata e sicura ragionevolezza. Capacità di mettersi in discussione e, nello stesso tempo, padronanza di sé.

Insomma, il “quid” rappresenta il tramite attraverso cui tutto ciò che attiene alla soggettività dei leader – indole o tratti di personalità, temperamento o carattere che sia – invade il campo della consistenza reale delle questioni in gioco, che, a sua volta, peraltro, al di là della cristallina oggettività del dato, è piuttosto lo spazio delle letture e delle libere interpretazioni che, di quest’ultimo, da’ ciascun attore  in scena.

Ad ogni modo, sarebbe interessante definire una elementare griglia di criteri che possano, se non “pesare” un’entità imponderabile come il “quid”, almeno tracciarne un profilo, se non altro per evitare che la qualifica di “leader” o addirittura il titolo di “statista”, come pur talvolta avviene, venga rilasciato con una superficialità pericolosa.

Anzitutto, la capacità di cogliere il “contesto” in cui ogni questione si pone, cioè l’attitudine a “storicizzarla”, senza che ogni tornante di una vicenda politica, che è pur sempre un “continuum”, in perenne evoluzione, venga isolato dal processo in corso e, in qualche modo, ipostatizzato, fino a farne un tabù intoccabile.

In altri termini, l’attitudine a “guidare” gli eventi, rivendicando il compito “alto” della politica, piuttosto che derubricarla al ruolo di un piccolo cabotaggio che costeggia i bordi dei temi in questione, tutt’al più limandone i margini, smussandone qualche spigolosità, ricavandone qualche utilità marginale, ma senza entrare nello spessore dei temi per dettarne la direzione di marcia.

Insomma, una politica addomesticata e di comodo, abile a cavalcare la cresta dell’ onda, senza preoccuparsi dove questa vada a spiaggiare il proprio impeto. Sarebbe interessante studiare se la politica esiga un particolare “abito mentale”, addirittura una tipologia ben caratterizzata di “intelligenza”. O meglio un “sapere” non specialistico, non tecnico, non classificabile in questi termini, bensì sovraordinato ad ogni sapere particolare.

Un sapere che si avvicina ad essere “saggezza” e si apprende sì anche dai libri nel rigoroso rispetto delle competenze, ma si impara soprattutto dalla vita, dalle esperienze fatte sul campo. E questo vale per ogni livello di ruolo e di funzione sociale. Ed è straordinariamente importante perché consente la piena espressione popolare e democratica della politica.

Del resto, questa attitudine politica – il cosiddetto “quid” – è  spesso distribuita a prescindere dal livello di acculturazione del soggetto, purché costui si adatti alla dura fatica del discernimento e della determinazione che ne consegue, piuttosto che arrendersi al comodo andazzo  delle cose che vanno di per sé, giù per una china incontrollata, magari addirittura assecondandone l’entropia. E si potrebbe continuare, evocando altri tratti che il “quid” esige.

Uno, in particolare, non può essere tralasciato: la qualità di un politico di razza quasi sempre è direttamente proporzionale alla sua attitudine all’ “autoironia”. Fondamentale virtù che ogni politico che si rispetti dovrebbe coltivare attivamente e che, al contrario, la gran parte dei nostri leader nemmeno conosce.

Eppure, questa capacità di osservare sè stessi da un punto di vista esterno alla propria assorbente soggettività, di prendersi sì sul serio, ma anche con un benevolo beneficio di inventario, senza impiccarsi  al monumento eretto a sé stessi, concorre grandemente a fare la differenza tra un leader ed un mestierante.

Domenico Galbiati

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