Il bellissimo film dell’americano Kevin Costner demoliva il mito della frontiera. La crisi del colosso cinese dell’edilizia Evergrande squarcia una realtà drammatica sul mito del capitalismo di regime.

La convivenza di una economia di tipo capitalistico con il regime autoritario di Pechino poneva da tempo alcune domande a uomini di Stato, economisti, imprenditori e filosofi (visto che oggi vanno per la maggiore). La strepitosa crescita economica cinese sembrava un modello indenne dai rischi e dalle opacità delle grandi intraprese dei Paesi liberal democratici e dalle crisi epocali di colossi della produzione e della finanza.

Le cronache di questi giorni ci dicono che non è così, che il mercato ha le sue regole a tutte le latitudini e che le bolle economiche esplodono anche dove non sembrerebbe possibile.

Si intensificano infatti in queste ore le notizie che una delle più grandi realtà di impresa del mondo sarebbe prossima al fallimento, secondo gli allarmi delle agenzie internazionali di rating e i più autorevoli media economici.

Il gigantesco gruppo Evergrande, duecentomila dipendenti e settanta miliardi di dollari di volume d’affari è stato giudicato prossimo al default da Fitch e da Standard&Poor’s, ed è oggetto di aggiornamenti quotidiani da parte del Financial Times, del Wall Street Journal, del New York Times e dalla BBC. Da noi solo qualche trafiletto sui grandi quotidiani.

Eppure la notizia è molto seria perché si parla di un debito complessivo che supera i trecento miliardi di dollari, del crollo del valore delle azioni quotate a Hong Kong, di obbligazioni che circolano anche nelle piazze finanziarie e nelle banche di tutto il mondo, di oltre un milione di acquirenti di case già pagate e che devono essere ancora costruite semmai lo saranno. Un disastro insomma, che potrebbe avere effetti a catena nella stessa Repubblica Popolare Cinese considerando le migliaia di imprese e banche che rappresentano l’indotto.

Da tempo circolavano voci sulla sorte del colosso dell’edilizia con oltre mille cantieri aperti in duecento città cinesi. Alla fine del mese di settembre era stata accertata l’impossibilità di pagare interessi in scadenza, ottenendo una moratoria di un mese. Alla fine di ottobre gli interessi erano stati pagati ma nel contempo maturavano altri oneri. Intanto alcune istituzioni finanziarie e alcuni studi legali europei e asiatici hanno avviavano iniziative giuridiche.

A questo punto tutta l’attenzione è rivolta sul governo cinese nella convinzione-come ai tempi di Lehman Brothers-che Evergrande è “too big to fail “cioè troppo grande per fallire.

Le scarse dichiarazioni delle autorità centrali cinesi parlano “di diritti e interessi di creditori e azionisti che saranno pienamente rispettati” come si addice in queste occasioni ma non si comprende come.

In passato alcuni default hanno visto l’intervento dei governi regionali e locali che hanno acquisito il controllo dell’impresa ma questa volta la posta in gioco è troppo alta.

In Europa esistono regole consolidate per governare i dissesti: dalla composizione negoziata del debito alla liquidazione giudiziale; negli Stati Uniti prima della dichiarazione di bancarotta c’è la regola del “Chapter 11” per superare le crisi, ricavando dalla grande impresa unità minori. In Cina è un mistero cercare di capire come potrà intervenire il governo, se con la nazionalizzazione in ogni caso molto onerosa o con altri provvedimenti.

Non è un caso che altri colossi cinesi come Alibaba e Tencent siano stati recentemente richiamati all’ordine dalle autorità di governo che non hanno esitato a rimuovere i dirigenti, ma per Evergrande interventi così limitati non serviranno certo a raddrizzare le sorti della impresa.

E così anche il capitalismo di Stato è chiamato a fare i conti con la spietata legge del mercato. 

Guido Puccio

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