Persino il Jerusalem Post si è chiesto qualche giorno fa se, mentre sembra che vinca tutte le battaglie, Israele riuscirà a vincere la guerra con Hamas ( CLICCA QUI ).
Una domanda più che legittima ancora oggi dopo che, nel corso del fine settimana, si sono addirittura intensificati i bombardamenti su Gaza, una delle aree più densamente popolate al mondo; dopo l’annuncio d’Israele di aver distrutto, o gravemente danneggiato, ben 15 chilometri della linea C della cosiddetta “Metro”, come viene eufemisticamente chiamata la rete di gallerie sotterranee create negli anni passati da Hamas e dalla Jihad Islamica palestinese sotto tutta la Striscia di Gaza ed utilizzata per spostare uomini e mezzi a seconda dell’attività militare che i palestinesi intendono organizzare contro Israele; dopo l’abbattimento, nel centro della Striscia, dell’edificio che ospitava la stampa internazionale e delle abitazioni del leader di Hamas Yahya Sinwar e del fratello Muhammed; dopo l’uccisione di Hasam Abu Harbid comandante della Jihad palestinese che opera al nord di Gaza.
I palestinesi, che segnalavano ad ieri la morte oramai di oltre 198 persone, tra cui 52 bambini e 31 donne, e il ferimento di oltre 1200 altre, hanno continuato a lanciare i loro missili. Ne sono stati contati oltre 3000 nell’arco della prima settimana di scontri. Tra sabato e domenica, sono stati 300 a conferma che i palestinesi sono in grado di operare nonostante l’eliminazione di alcuni loro vertici apicali militari. Anzi, dopo l’uccisione di Hasam Abu Harbid, i palestinesi minacciano di lanciare i missili direttamente su Tel Aviv, dopo averlo fatto in direzione di Ashdod, Ashkelon, Kiryat Malachi and Beersheba.
Come accadde già nel 2019, alcuni di questi razzi sono stati indirizzati verso le piattaforme del campo petrolifero israeliano di Tamar, che si trovano a circa 25 chilometri dalla costa meridionale dello Stato ebraico, provocando un’interruzione delle attività estrattive, nonostante sia estremamente basso il pericolo rappresentato dal lancio di ogive non sempre guidabili perfettamente e in grado di raggiungere la gittata adeguata.
E’ comunque aumentata la preoccupazione delle autorità israeliane in merito al fatto che si possano registrare attacchi anche via mare da parte di una marineria improvvisata, ma non per questo potenzialmente meno pericolosa, allestita negli anni scorsi da Hamas e dalla Jihad. Soprattutto, a rischio potrebbe finire il traffico marittimo grazie al quale Israele importa il 90% delle merci straniere di cui ha proprio bisogno. Hamas si è persino dotata di rudimentali sottomarini senza equipaggio come quello distrutto ieri dall’esercito israeliano sulla spiaggia di Gaza nella parte nord della Striscia.
Tutto ciò giustifica la domanda del Jerusalm Post e di tutti coloro che s’interrogano sul fatto che Israele, forse mai come oggi, finisca per trovarsi vulnerabile su troppi, se non su tutti, i fronti. A quelli operativi di Gaza, della Cisgiordania, delle città israeliane miste ebraico – arabe e del mare, si stanno aggiungendo soprattutto quelli diplomatico e dell’immagine internazionale. Attorno a questi ultimi due, più che sull’imponente sistema militare e d’intelligence, si gioca davvero il riconoscimento del diritto all’esistenza e del diritto a vivere in pace come meritano tutti i popoli di questa Terra, diritti che dovrebbero essere sostenuti da una sempre più ampia rete di relazioni, di scambi e di collaborazioni.
I furiosi scontri in atto, il bombardamento di civili, il sentimento generale che emerge nel vedere una sorta di scontro tra forze tanto sproporzionate tra di loro, non stanno che facendo lasciare per strada molti dei pochi successi comunque guadagnati recentemente sul piano diplomatico. Al punto che, invece, come scrive The New York Times, oggi si può parlare del riesplodere in piena regola, e con pesanti conseguenze, di un vero e proprio conflitto tra israeliani e palestinesi ( CLICCA QUI ).
La vittima più autorevole dello scambio di bombe e missili in corso potrebbe essere il cosiddetto Accordo di Abramo. Il suo principale sponsor, Donald Trump, era riuscito a far nascere dal nulla le relazioni che Israele non aveva mai stabilito con alcuni stati arabi o musulmani, come accaduto in precedenza solo con Giordania ed Egitto. Questi nuovi “pacificatori ” ( Emirati arabi, Bahrain, Marocco e Sudan) nel piano di Trump dovevano essere gli apripista di una più ampia “pax statunitense” nella regione il cui sfondo restava la contrapposizione con l’Iran e, in qualche modo, anche quella con la Turchia e il mondo islamico più vicino alla Fratellanza musulmana, per quanto questo non sia mai stato detto esplicitamente.
In ogni caso, tutti i paesi firmatari di quello che è un vero e proprio riconoscimento dello Stato di Israele, soprattutto i due del Golfo che hanno al loro interno una forte componente sciita, si erano sentiti in dovere di precisare che un tale accordo avrebbe favorito e non danneggiato la causa dei palestinesi. Non è stato sottovalutato che soprattutto i governanti dei quattro paesi arabo- islamici firmatari dell’Accordo oggi restano in silenzio e, non a caso c’è chi fa notare le difficoltà in cui si trovano nei confronti delle loro opinioni pubbliche che, probabilmente, non gradiscono più l’Accordo che tanto aveva fatto tutti ben sperare.
Alcuni commentatori occidentali erano subito corsi a sostenere che, con quell’Accordo, veniva superato il “tabù” dei palestinesi. Un tabù che per oltre sette decenni aveva finito per condizionare, e fortemente, l’intero quadro regionale, e non solo. Che non fosse così pienamente vero e che la cosa non dipendesse solamente dall’incertezza sulla rielezione di Trump, era allora la metà del settembre dello scorso anno, lo dimostrarono subito il silenzio e la mancata sottoscrizione da parte dell’Arabia Saudita la quale comunque era data, ovviamente, come la patronatrice occulta dietro le quinte.
Lo scontro in atto tra Hamas, i palestinesi delle città israeliane e dei territori occupati e Israele sta raggiungendo un’intensità e una violenza tale da mettere in discussione molto del lavoro diplomatico degli ultimi tempi. Non è un caso che proprio l’Arabia Saudita sia stata costretta a farsi organizzatrice di un incontro dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) conclusosi con la richiesta, avanzata dai 57 stati che la compongono, della sospensione immediata di quelli descritti come “i barbari attacchi di Israele a Gaza” e la condanna dei “crimini sistematicamente” compiuti contro i palestinesi ( CLICCA QUI ).
Quale protettrice dei luoghi santi dell’Islam, l’Arabia Saudita non può certamente restare indifferente di fronte a quanto avviene attorno alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme, il terzo in ordine d’importanza dopo la Mecca e la Medina. Non può, inoltre, lasciare che Iran e Turchia si ergano quali unici e decisi sostenitori della causa palestinese.
I paesi islamici hanno pure condannato l’ inerzia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tra essi la Malesia, l’Indonesia e il Brunei hanno chiesto una riunione di emergenza dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Alzano la voce a livello di quel che ha fatto per prima la Turchia, immediatamente offertasi come principale protettrice dei palestinesi. Ankara fu, infatti, la prima capitale di un paese islamico a protestare sin dalle prime ore dall’esplodere degli scontri avvenuti a Gerusalemme a seguito degli sfratti di palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah nella zona est della Città, che è santa per tutte e tre le religioni monoteiste più importanti al mondo.
Tornano indietro, allora, le lancette della storia? A quando si è assistito a più riprese, spesso con un alto prezzo pagato di violenza e di sangue, a uno scontro radicale tra i musulmani di tutto il mondo e Israele in cui è finito per essere coinvolto anche l’Occidente. Non è un caso se anche Joe Biden stia diventando in queste ore sempre più oggetto di critiche per il suo essere considerato troppo apertamente schierato a fianco d’Israele. Questo soprattutto dopo che, per la terza volta in poche ore, gli Usa hanno opposto il veto contro altrettante risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu contenenti la richiesta per l’immediato cessate il fuoco giudicate troppo pesanti nei confronti di Israele.
Del resto, il neo eletto Presidente alla Casa Bianca non ha mai nascosto di essere un convinto sostenitore del diritto all’esistenza di Israele, ma al tempo stesso si è sempre detto convinto della soluzione dei due stati e, nei quattro anni passati, non ha mancato di criticare Trump da lui accusato di aver allontanato la possibilità del raggiungimento di un accordo a causa dei suoi interventi troppo pregiudizialmente favorevoli a Israele.
Il termine che più frequentemente sta circolando in queste ore sia tra i suoi critici, che non mancano nello stesso Partito democratico di Biden, sia su gran parte della stampa internazionale riguardo alla politica americana è quello di “inazione”.
Giancarlo Infante