Il 1° luglio 1944, un grande sardo, che rispondeva al nome di Emilio Lussu, scriveva:” sento che avremo grandi ore da vivere insieme. Noi le vivremo da sardi, da italiani, da europei”. E’ impressionante rilevare la carica profetica di queste parole nonostante siano trascorsi 76 anni da quella data. Oggi, ci troviamo alle porte del primo ventennio del nuovo secolo, in piena pandemia che non sta risparmiando nessuno.

L’isola di Gramsci, di Segni, di Cossiga e di Berlinguer  è ancora oggi alle prese con le categorie fondamentali di Lussu: la sardità, il legame con la nazione italiana, l’europeismo. Per spiegare  la grave deriva odierna dell’autonomismo sardo  conviene partire proprio dalla “coscientizzazione sardista”  che è quasi smarrita, se non del tutto scomparsa nell’orizzonte dei “millennials” che volentieri hanno adottato il linguaggio americano dei social e abbandonato la cultura “local” a favore decisamente di quella “global”.

I giovani sardi, anche i più istruiti, guardano all’Europa e al mondo come via di fuga dall’isolamento dell’insularità e dalla crisi economica, che non è più quella del 2008, ma questa attuale,  più temibile, del ripiegamento del neo-liberismo unito alle conseguenze della pandemia. La politica sarda, dopo essere balzata all’attenzione nazionale con il riconoscimento dello Statuto di autonomia speciale, e con la guida di una classe dirigente di cultura democratico-cristiana, si è poi allineata sulle fasi del ciclo storico della politica nazionale imitando il centrismo, il centro sinistra, gli accordi di Solidarietà nazionale fino al dissolvimento di questi e all’avvio della diaspora dei cattolici nel principio degli anni ’90.

Ma il legame con la nazione italiana ha dato i suoi frutti? A dire il vero nonostante i successi delle politiche di riforma agraria con la nascita dell’ETFAS(Ente di trasformazione fondiaria e agraria, della Sardegna),  del Piano di Rinascita regionale(L. n. 588 dell’11 giugno 1962) e del parallelo ingresso nell’isola delle Partecipazioni Statali, le quali dovevano determinare l’avvio di una moderna cultura industriale e di un robusto scossone alla atavica economia agropastorale delle zone interne, quelle dell’antico banditismo, il clima politico-culturale della fine degli anni ’90 è quello della delusione e della nostalgia della sardità.

La Sardegna non è più povera, ma non ha risolto i suoi grandi problemi storici di arretratezza rispetto ormai agli standard nazionali ed europei. Il sardismo, che venne impersonato anche dalla DC sarda, si è smarrito in un dibattito interminabile tra autonomismo rinforzato, federalismo e nazionalismo utopistico(per intenderci sul modello catalano). Se si dovesse realizzare un sondaggio nelle scuole sarde di ogni genere e grado per rilevare la presenza della storia e della cultura letteraria e artistica isolana nei programmi scolastici si potrebbe rischiare di non scrivere niente.

Ecco quindi lo scenario politico odierno della Sardegna appiattito totalmente ai riti della Seconda Repubblica nazionale, agli schieramenti del centro-sinistra e del centro-destra con l’arrivo clamoroso di  un nuovo protagonista apparso alle elezioni regionali del 2019: la Lega di Salvini Premier. Oggi il Presidente della Regione è sardista, sostenuto da una maggioranza di centro-destra, e il Presidente dell’Assemblea regionale è un leghista.

Un leader democristiano più volte Presidente della Regione e ormai novantenne ha posto una seria domanda: avevamo bisogno della Lega per risolvere i nostri problemi? Sturzo aveva ricordato ai meridionali che la soluzione alla propria arretratezza non sarebbe venuta dagli altri, ma soltanto da se stessi. Lo capiranno anche i sardi? Allora conviene sgranare il rosario dei numeri della deriva dell’autonomismo sardo elencando le percentuali di partecipazione al voto nelle ultime edizioni delle elezioni regionali: alle Regionali del 2019, su un numero di aventi diritto al voto pari a 1.470.401, ha votato il 53,09%; a quelle del 2014 il 52,28%, a quelle del 2009 il 67,58%,  a quelle del 2005 il 71%, nel 1999 il 65%, nel 1994  il 74,3 % , nel 1989 l’84%.

Nell’intero trentennio della Seconda Repubblica, la piccola democrazia sarda ha perso il 30 %  della frequenza al voto passando dall’84% del 1989 al 53% del 2019. Di fatto, quasi metà dei sardi diserta le urne su una popolazione di poco superiore al milione e mezzo d’abitanti. Questo esercizio storico-statistico non è stato neanche prospettato dai due quotidiani isolani che si sono limitati a rilevare i risultati puri e semplici dell’ultima competizione. Ma in conclusione chi ha vinto? Gli analisti più avveduti non hanno dubbi: ha perso il sardismo in quanto movimento plurale ma omogeneo della “coscientizzazione sardista” e hanno vinto i partiti nazionali a cominciare dalla Lega! Il disallineamento poi causato dal cambio di Governo nazionale, con la conclusione del Conte I sostenuto dalla Lega  e dai 5Stelle e con la nascita del Conte II, patrocinato da PD e dai grillini, porterà fortuna alla nuova Giunta regionale in primis sardista-leghista?

Lo scenario economico e sociale, condizionato duramente dalle politiche di contenimento del Coronavirus,  ha spinto la Caritas sarda a lanciare l’allarme dell’ulteriore impoverimento delle fasce più deboli della popolazione e le ACLI a promuovere un sondaggio sullo stato d’animo dei sardi che risulta ormai ridotto al solo 13% della popolazione che dichiara di avere fiducia e di riuscire a galleggiare in questo mare di crisi. Ed ecco allora che potrebbe venire in aiuto l’Europa e la categoria dell’europeismo evocata da Emilio Lussu se non fosse che alle Elezioni Europee del 26.05.2019 è andato a votare soltanto il 36,25% dei sardi, fanalino di coda a livello nazionale seppure in compagnia della Sicilia, penultima con il suo 37,20%.

Si direbbe che per i sardi l’Europa sia lontanissima , forse incomprensibile perciò inutile. E ora emerge un serio paradosso: la Regione sarda ha presentato al Governo nazionale un pacchetto di progetti per un importo di circa 7 miliardi di Euro a valere sul Recovery Plan. E’ possibile che molti sardi non conoscano l’ultima opera di Bartolomeo Sorge “Perché l’Europa ci salverà” eppure oggi la Sardegna ha bisogno degli aiuti finanziari europei quasi come una scialuppa di salvataggio per traghettare il suo popolo verso un 2021 meno drammatico e desolato e poi per riprogettare il proprio futuro.

Avremmo bisogno di un approccio trasformazionale, come ci ha insegnato Zamagni, tanti sono i nodi che si sono aggrovigliati sul corpo esangue di una regione che si colloca ormai tra gli ultimi posti in Europa. E all’Europa bisogna guardare anche quando si deve andare a votare perché, come ripeteva Aldo Moro, dobbiamo costruire l’Europa dei popoli dopo quella dei mercati e dei Governi. Emilio Lussu non riusciva a scindere l’identità sarda da quella italiana ed europea ma quest’ultima bisogna costruirla nella scuola, nel mondo del lavoro e dell’impresa, nella cultura della classe dirigente e in particolare di quella politica.

I cattolici sardi si sono risvegliati e hanno lanciato un documento-appello alle istituzioni per sensibilizzarle alla gravità della crisi economica, sociale e sanitaria e alla pratica della migliore politica come il Papa l’ha ben tratteggiata nell’ultima Enciclica Fratelli tutti. La Conferenza episcopale sarda ha ricevuto l’appello dei cattolici alle istituzioni isolane  e ha espresso   apprezzamento per l’impegno dei laici in questo momento grave della crisi pandemica. E’ sufficiente? Temo di no, tanta è la diffidenza verso la politica accumulata nelle file dell’arcipelago cattolico al punto che non sembra irriverente verso i pastori auspicare una nuova evangelizzazione verso il sociale per scongiurare il disimpegno di quanti non devono attardarsi al balcone ma sono chiamati nella piazza a dare il loro contributo, sporcandosi le mani se è necessario.

Antonio Secchi

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