Una premessa

Il dibattito sullo stato dell’Università italiana e della ricerca nel nostro paese è serrato e comprende una molteplicità di voci e di pubblicazioni. In queste note non mi riprometto di riassumerlo e nemmeno di delineare un progetto di legge di riforma dell’Università e della Ricerca, un obiettivo prematuro, ma che certamente va preso in seria considerazione, tenendo però presente che di riforme dell’Università ne abbiamo viste (e subite!) davvero tante nel breve lasso di tempo tra fine anni ’90 e 2010 (Riforma Bassanini, 1997, Riforma Berlinguer 1999, Riforma Moratti 2003, Riforma Gemini, 2010). Una nuova riforma va pensata bene e con saggezza. Le note che seguono rappresentano un iniziale tentativo di delineare alcune linee di intervento, che cresceranno e potranno essere meglio puntualizzate con il contributo di altri.

 Università

 Il primo punto da ribadire, condiviso con la scuola, è che anche l’Università deve ritornare ad educare e non solo ad istruire. È ovvio che in una società dove non tutti la pensano allo stesso modo si debba coltivare un atteggiamento critico e comparativo, ma molte sono le dimensioni dell’educazione comuni a qualsiasi religione/filosofia/opinione politica che oggi non vengono più coltivate e praticate nelle scuole e nelle università, e quindi nella società: il rispetto delle persone, da non trattare come mezzi per il proprio piacere e/o guadagno, la convivenza pacifica, che richiede capacità di comprensione dell’altro e di negoziazione, la giustizia sociale, la cooperazione, la libertà esercitata in positivo, il lavoro, per non richiamare che le dimensioni principali. Per educare, l’Università deve smettere di applicare l’approccio gerarchico taylorista, secondo il quale il professore ha sempre ragione e lo studente deve solo ripetere a memoria ciò che il professore ha detto. La promozione di lavori personali, di ricerche di gruppo, la discussione di elaborati degli studenti, specie degli anni più avanzati, dovrebbero entrare nell’università come strumenti per promuovere la creatività e la responsabilità nei confronti dei risultati (outcome e non solo output).

Un secondo punto è quello dell’autonomia, che in Italia viene di molto limitato dal governo centrale che impone regolamenti minuziosi, per evitare disparità fra aree regionali, senza riuscire ad ottenere questo risultato, ma anchilosando le iniziative di innovazione di quelle università che sarebbero in grado di adattarsi più prontamente ai rapidi cambiamenti delle nostre società. L’eccessiva polverizzazione delle specializzazioni è figlia di questa impostazione burocratica e impedisce la costruzione di visioni più complessive utili ad orientare i giovani in questo mondo in rapida evoluzione.

Il terzo punto da chiarire fin da subito è che l’Università non deve e non può vivere in una torre eburnea, ma si deve relazionare con le sfide mondiali e locali, proponendo a professori e studenti, accanto a progetti di ricerca individuali o di gruppo liberamente scelti, anche progetti di ricerca che affrontino qualche tema proposto dall’esterno. L’università, cioè, deve valorizzare la cosiddetta Terza missione in un modo più visibile e sistematico, con particolare attenzione alla multidisciplinarietà. Questo implica che l’Università si relazioni con il mondo delle attività economico-sociali-educative-culturali- assistenziali del territorio, per raccoglierne le domande e poter collaborare nelle risposte. Gli studenti devono essere immessi in questo filone di relazioni, inserendoli in progetti di ricerca condivisi e non solo imponendo loro dei “tirocini”, spesso puramente routinari. Un’eccessiva dipendenza dalla burocrazia pubblica irrigidisce le università e le rende auto-referenziali. La critica sempre sollevata che l’Università deve essere “libera” e non alle dipendenze di poteri esterni, specie economici, può essere superata non legando le università a singoli soggetti esterni, ma coltivando un sano pluralismo. L’Università deve tornare a praticare la conazione, un vocabolo già coniato da Aristotele, che è la crasi di conoscenza ed azione, ricordando quello che il grande filosofo Henri Bergson usava dire: “Pensa come uomo d’azione e agisci come uomo di pensiero”.

Da ultimo, ma non per ultimo, va ribadito che le note difficoltà della spesa pubblica italiana, troppo alta per la base produttiva del paese, hanno determinato una scarsità devastante di risorse dedicate all’istruzione (di tutti i gradi) e alla sanità, per liberare risorse impegnate a rincorrere le molte povertà che si sono profilate. Si tratta di un approccio di breve periodo, che apre desolanti prospettive per il futuro. Occorre trovare il coraggio di discontinuare questo trend, uscendo dall’impostazione della spesa pubblica “a pioggia” e proponendo obbiettivi mirati. Introdurre politiche che lavorano per il futuro, come quelle per istruzione e sanità, è necessario, ma difficile da spiegare alla popolazione, che richiede un miglioramento immediato (tipicamente, meno tasse e più sussidi!). Bisognerà dunque impegnarsi in una sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Sulla base di questi principi, ecco le proposte operative che ci sentiamo di sostenere per l’Università:

  1. Occorre un ripensamento del 3+2, che in troppi casi non funziona, e un allentamento della rigidità dei piani di studio. Il superamento dovrebbe vedere un percorso di 3 anni separato da quello di 5 anni. Il percorso di 3 anni potrebbe continuare ad essere gestito dalle Università, però con una didattica separata da quello dei 5 anni. Esso può essere gestito meglio da Istituti Superiori (IS) in tutti quei i settori (non solo tecnologici, ma economici, manageriali, agrari etc) dove si ritiene opportuno qualificare la forza lavoro senza necessariamente passare per l’Università. Le Università si possono convenzionare con gli IS per la realizzazione di corsi professionalizzanti e gli IS si possono convenzionare con le Università per lo svolgimento di corsi più teorici. Sui percorsi professionalizzanti, occorre un dialogo stretto tra enti di istruzione e mondo del lavoro.
  2. La missione propria delle Università è quella di gestire i percorsi di educazione di terzo livello “lunghi”, in connessione con la ricerca. I piani di studio devono essere resi più flessibili e più facilmente modificabili. Le università grandi possono gestire efficacemente più specializzazioni, mentre le Università piccole devono specializzarsi in pochi percorsi da gestire al meglio. Ambedue i tipi di università devono reintrodurre la frequenza ed eliminare gli studenti “fuori corso”, con un po’ di flessibilità iniziale. Coloro che non possono frequentare e impiegano più tempo a laurearsi devono essere dirottati sulle università telematiche, tenendo a mente che la valenza “universitaria” di tali enti è necessariamente diversa (è opportuno continuare a chiamarle università?).

Le varie tipologie di istruzione di terzo livello hanno la loro ragion d’essere e il loro ruolo da svolgere. L’Italia è rimasta troppo rigida nell’offrire quasi soltanto percorsi universitari. Bisogna essere consapevoli che è oggi importante che i giovani frequentino un istituto educativo di terzo livello, a causa della complessità del mondo, ma non necessariamente un’Università di ricerca. L’estensione dell’educazione di terzo livello che così si otterrà potrà avvicinare il percorso di terzo livello ai reali bisogni dell’economia e della società e potrà migliorare la classifica italiana relativa all’istruzione di terzo livello, che al momento è sotto persino alla Turchia. (Si veda sul tema della differenziazione delle università il cap. 3 di G. Capano, M. Regini, M. Turri, Salvare l’Università italiana, Bologna, Il Mulino, 2017).

  1. Va fornito un forte sostegno all’obiettivo del riconoscimento europeo dei titoli universitari, mentre diventa sempre più urgente l’abolizione del valore legale delle lauree, proprio in vista di quanto detto al punto precedente.
  2. Il dottorato di ricerca deve preparare non solo alla docenza universitaria, ma a carriere di ricerca in altri centri di ricerca, pubblici e privati, e ai livelli alti della PA.
  3. È auspicabile l’affidamento alle Università, in collaborazione con tutti gli enti professionali esistenti, dell’abilitazione alle professioni, aggiungendo un anno (o due in selezionati casi) di corsi/esercitazioni pratiche, anche tenuti da persone in carriera.
  4. Per l’abilitazione alla carriera universitaria, la valutazione sulle pubblicazioni e sull’attività di ricerca non deve avvenire solo attraverso la bibliometria, per le note distorsioni che essa provoca.
  5. La valutazione dei docenti universitari nei concorsi post-abilitazione deve comprendere anche la didattica e la Terza Missione. Occorre ridare centralità alla didattica e stanziare fondi per migliorarla e renderla più coinvolgente, più attiva, più relazionata col territorio. Questo favorirà anche la migliore realizzazione della Terza Missione.
  6. È necessario un riaccorpamento dei settori disciplinari in aree più vaste (l’Italia è l’unica ad avere una tale frammentazione di aree disciplinari), accompagnato da una cura per evitare la scomparsa a livello nazionale di specializzazioni di nicchia, che aumentano la varietà della formazione intellettuale.
  7. La cooperazione fra università, soprattutto a livello europeo, in specifiche aree di ricerca e in dottorati deve essere premiata, così come i progetti che mettono insieme competenze variegate.
  8. Vanno rafforzate le risorse per borse di studio per studenti davvero bisognosi.

Ricerca

 L’area della ricerca ha urgente bisogno di una riorganizzazione strutturale, che risponda ad una strategia del paese che, essendo di media dimensione, non può pensare di poter coltivare a livello di eccellenza tutte le specializzazioni. Occorre un piano strategico che da un lato censisca quello che c’è e le potenzialità esistenti e dall’altro identifichi le priorità nazionali in questa congiuntura storica. Le aree che verranno così prescelte come potenzialmente forti dovranno diventare centri di eccellenza a livello internazionale e attrarre personale anche dall’estero. Questo però non significa cancellare le altre aree di ricerca, che saranno in grado di collegarsi a centri nazionali ed esteri e potranno eseguire una parte di programmi condivisi. Però, tutto ciò che non può avere nemmeno questo destino va chiuso e le risorse ridirezionate.

La ricerca deve sempre più avere un carattere europeo e internazionale per fare massa critica e avere migliori chances di ottenere risultati significativi. Tutti i paesi europei dovrebbero ospitare centri/università di eccellenza in campi diversi e per il resto collaborare ai centri che non si trovano sul loro territorio, avendo cura comunque di restare al passo con gli sviluppi della ricerca, in modo da poterla diffondere sia a livello di insegnamento, sia a livello delle realizzazioni pratiche. Non occorre soffermarsi sull’organizzazione dei centri di eccellenza, perché è ben nota e va semplicemente applicata (risorse adeguate, ricercatori di livello, acquisizione di personale tecnico specializzato, collaborazioni esterne).

In questa prospettiva, attenzione deve essere rivolta ad una distribuzione territoriale equilibrata dei centri di eccellenza, evitando di far nascere cattedrali nel deserto e “science and technology parks” nati morti, ma anche impedendo che le aree geografiche già forti la facciano da padrone. Sappiamo poi quanto sia importante dare incentivi alle PMI perché si coordino per realizzare progetti di ricerca applicata condivisa. La collaborazione tra pubblico, privato e Terzo settore va premiata.

Tutti i progetti di ricerca vanno monitorati nei loro risultati da enti indipendenti, non solo per i risultati raggiunti, ma anche in relazione alle modalità di raggiungimento degli stessi (costi e qualità del personale).

Vera Negri Zamagni

 

Immagine utilizzata:Pixabay

 

 

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