La crisi ucraina va esaminata anche in ragione dell’incidenza che esercita nei confronti del nostro sistema politico.
In fondo, da questo punto di vista rappresenta un momento di verità, uno “stress test” che, applicato ai nostri leader veri o presunti, nelle varie salse di “unto del Signore” o “tribuno del popolo”, oppure “capo politico”, ne rivela la maggiore o minore attitudine al ruolo di “statista”, pur sempre nella casereccia postura di “uomo del fare”.
Paradossalmente, i rapporti tra le forze rappresentate in Parlamento e, salvo FdI, intruppate nel Governo sono, in questo momento, in una fase talmente gelatinosa da assorbire la scossa prodotta dalla guerra, con quella flaccida flessibilità che mancherebbe ad una impalcatura metallica e rigida che, in definitiva, ne soffrirebbe di più. Ad ogni modo, gli effetti della tensione creata dall’attacco russo contro Kiev sono evidenti a molti livelli: dentro i singoli partiti, in ciascuno dei due schieramenti e nel rapporto tra questi ultimi, oltre che nelle posizioni che si vanno assumendo nei confronti del tradizionale atlantismo del nostro Paese.
Su tutto campeggia un riserbo o addirittura un silenzio, a dir poco surreale se rapportato alla compulsiva loquacità con cui taluni infliggevano al Paese raffiche di dichiarazioni, tre volte al giorno, colazione, pranzo e cena. E’, del resto, comprensibile come, ad esempio per Berlusconi e Salvini, sia difficile rientrare, senza qualche imbarazzato rossore, da dichiarazioni di stima, di amicizia, di fraterno affetto nei confronti di Putin: a risentirle oggi, fatta la frittata, appaiono francamente esilaranti. E per fortuna, nel Risiko della politica estera a vanvera, hanno lasciato
a Di Maio la Cina e la Via della seta … in un modo tale che Marco Polo dev’esserci rigirato nella tomba.
Dall’altra parte dello schieramento, se si esclude qualche scontata istanza pacifista di vecchio conio ancora in uso all’estrema, la sinistra è piombata – non si capisce se si tratti di afasia, di mutacismo o di ambedue le condizioni – in una reticenza tombale, come se neppure volesse lasciare le sue impronte digitali su un argomento che ancora le scotta tra le mani. Un atteggiamento in cui convergono almeno due versanti: il paralizzante fastidio ad affrontare temi che evocano antichi fantasmi, forse non ancora del tutto addomesticati nella coscienza profonda del popolo che fu comunista, ma anche l’elettroencefalogramma piatto di una sinistra che ha smarrito la sua storica attitudine all’analisi.
Vi sono, soprattutto in ordine all’invio di armi in Ucraina, vistose fessure nel Pd e crepe preoccupanti tra i 5 Stelle. Dove sembra che, nell’eterna altalena con Di Maio, ricompaia Di Battista. Soprattutto, c’è da chiedersi se Travaglio, oltre che l’aedo dell’epopea grillina, ne sia pure l’ispiratore, neanche tanto occulto, ma soprattutto svolga il ruolo di tramite di una certa continuità del Movimento, a prescindere dai movimenti tellurici che lo scompigliano spesso, come succede alle entità che non hanno alcun fondamento. In questa vicenda viene alla luce la “pochezza” politica di Conte, che ora pare vesta la camicia – dice la stampa – per trasmettere, anche attraverso il nuovo look, quella diversa postura di uomo forte ed aggressivo destinata a sovrapporsi all’immagine di “avvocato del popolo”, troppo moderata per dar conto del ribellismo finalmente redentore dei 5 Stelle.
Insomma, dopo la “canotta” di Bossi e le felpe di Salvini, ci tocca la camicia di Conte … Il quale, di tale passo, rischia d’apparire un prodotto del suo staff della comunicazione che non altro; secondo quella perversa involuzione – di cui una democrazia sana dovrebbe liberarsi – per la quale è la comunicazione che precede e fa la politica, piuttosto che viceversa. Ma la “pochezza” si evince non tanto dal merito, pur sempre legittimo della questione posta – il no all’incremento delle spese per la difesa – quanto dal fatto che si sia assunto un tale argomento, in un simile momento, di fatto derubricandolo ad elemento di propaganda.
Francamente, da chi ha guidato il Governo per anni, sarebbe lecito attendersi una miglior capacità di discernimento tra l’interesse del Paese a mostrarsi compatto nel foro internazionale in un simile frangente e la ricercata, studiata, mediaticamente enfatizzata divaricazione, funzionale all’immagine della propria parte politica o, addirittura, ad una regolazione di conti al proprio interno.
Intanto, viene annunciato un nuovo incontro tra Letta e la Meloni. In fondo, non è cosa sorprendente per una ragione, si potrebbe dire, meccanica e strutturale: in tutti i sistemi chiusi ed autoreferenziali, rattrappiti su sé stessi, prima o poi gli estremi si toccano.