L’annuncio della Pfizer relativo alla straordinaria efficacia sperimentale del proprio vaccino contro il Covid ha messo le ali ai mercati. Prima in Asia, poi l’Europa e infine Wall Street, dove il Dow Jones ha sfondato ogni record. Ma al netto di dietrologie o coincidenze temporali fra l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca e la rivelazione (a mercati aperti) game-changer dell’anno, un paio di criticità sono emerse da sotto il pelo dell’acqua di una giornata apparentemente storica.

La prima relativa al Nasdaq, l’unico indice statunitense a non brindare affatto per il successo teutonico-americano nella rincorsa all’antidoto contro la pandemia.

La risposta potrebbe risiedere in questo grafico, il quale mostra come quello della taiwanese Pegatron sia stato uno fra i pochissimi titoli a conoscere il segno meno sui mercati asiatici.

 

Reuters

Motivo? La scoperta di violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori, fra cui la registrazione di studenti come dipendenti regolari e il costante superamento dell’orario limite. Ad aggravare la questione, il fatto che Pegatron assembli gli iPhone e che Apple abbia immediatamente sospeso le attività nello stabilimento incriminato. “Se Pfizer non avesse instradato i mercati, dubito che il solo effetto Biden avrebbe permesso al Nasdaq di evitare un tracollo, una vera e propria sell-off a seguito di una notizia simile, stante le criticità e i dubbi che da qualche tempo contornano il titolo di Cupertino e le valutazioni da bolla che circolano nel settore tech”, ammette a mezza voce un trader con base a Londra.

Fortunata coincidenza, insomma. Ma è la seconda criticità ad apparire più sistemica. E seria.

Mentre infatti Wall Street annegava nell’euforia, il Tesoro Usa era impegnato nella prima di una serie record di aste di titoli di Stato previste per questa settimana. Rifinanziare il deficit, missione prioritaria. E l’esordio è stato con il botto, visto che veniva offerto un controvalore record di 54 miliardi di dollari di Treasuries a 3 anni, un ammontare che rappresentava ben oltre il doppio delle aste medie tenutesi fra il 2015 e il 2017. Con un rendimento allo 0,25% e una domanda al 2.40, poco sotto la media del 2.45, tutto sembrava perfetto.

Tranne per un particolare, come mostra questo grafico: la domanda da parte di investitori esteri è scesa dal 55,7% del mese scorso al 38,9%, il tasso più basso dal maggio 2019 e ben al di sotto della media del 52,8%.

Bloomberg

E con gli investitori domestici attestati al 14,3%, poco al di sopra del 12,6% delle aste di ottobre, i dealer – leggi le banche che collocano quel debito per conto del Tesoro – hanno dovuto sobbarcarsi il 46,8% del totale, il massimo dall’ottobre 2018.

Come mai? Proprio ora che Joe Biden promette di normalizzare il Paese e la Pfizer addirittura sembra mostrare al mondo la luce alla fine del tunnel della pandemia, gli investitori esteri rifiutano la carta Usa?

Ed ecco che questi due grafici paiono offrire un’implicita risposta alla strana e un po’ preoccupante dinamica dell’asta. Con il Treasury Usa a 10 anni, il benchmark dei benchmark, prezzato allo 0,95% sul mercato secondario, i traders hanno cominciato a guardare con una certa ansia alla soglia psicologica dell’1%. Il motivo? Il timore di un balzo dell’inflazione molto più repentino di quanto non si potesse credere soltanto fino alla scorsa settimana, trend che infatti ha portato con sé una prezzatura sull’euro/dollaro che vede già a fine 2021 un possibile primo rialzo dei tassi da parte della Fed.

Bloomberg/Zerohedge

Ovvero, è bastato un weekend (per quanto elettoralmente segnante) e un aumento del rendimento del decennale un po’ troppo euforico per cancellare completamente la certezza ferrea di una Federal Reserve che non avrebbe cominciato un processo di normalizzazione monetaria prima di almeno tre anni.

Bloomberg/Zerohedge

E, infatti, oltre a intravedere una prima, timida mossa verso la fine del prossimo anno, il biennio 2023-2024 viene già ritenuto habitat naturale per più ritocchi all’insù.

Può sembrare un orizzonte temporale lunghissimo ma non lo è. Per due motivi.

  • Primo, chi opera sui mercati deve anticipare anche ogni singolo rialzo di pochi punti base dei tassi, poiché su quei valori sono tarati i criteri di iscrizione a bilancio degli assets (VaR, Value-at-Risk). Quindi, uno scostamento può tramutare un ammasso sonnolento di securities in una bomba a orologeria. Della quale occorre disfarsi il prima possibile, un po’ ciò che accadde con i subprime: cieli azzurri a perdita d’occhio fino a fine agosto 2008, l’apocalisse in pochi giorni a settembre.
  • Secondo, il fatto che la stessa Fed abbia sentito il bisogno di parlare di almeno tre anni di tassi inamovibilmente fermi a zero nel corso dell’estate, al fine di tranquillizzare il mercato senza dover per forza espandere il programma di acquisto, rimasto infatti fermo nei controvalori da giugno in poi.

Insomma, se due indizi fanno almeno mezza prova, la poca propensione di investitori stranieri verso quel bond a 3 anni da rinnovare e il nervosismo a tempo di record dei rate strategists nel prezzare un rischio inflattivo sembrano gettare sul tavolo di Wall Street e delle piazze di tutto il mondo una variabile che nessuno si attendeva, quantomeno così in fretta. Insomma, l’euforia della Borsa per l’annuncio della Pfizer ha portato come effetto collaterale la presa d’atto di una possibile uscita anzitempo dall’emergenza permanente “garantita” da Covid e con essa un rientro a passo di carica in un regime di prezzi che obblighi la Fed, quantomeno, a non operare più in regime espansivo. Se non, nel medio periodo, addirittura ad alzare i tassi anche solo in maniera minima.

Si può vivere in un mondo senza Fed?, pare chiedere il mercato attraverso queste due dinamiche. Ma la domanda più stringente, per ora, sembra decisamente un’altra: arriverà prima il vaccino o l’inflazione? E vista l’agitazione dei traders, non appare quesito di poco conto.

Mauro Bottarelli

Pubblicato su Businnes Insider ( CLICCA QUI )

 

Immagine utilizzata:Pixabay

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