Libertà di deficit, una somma attesa attorno ai 160 miliardi dal Recovery Fund, i fondi comunitari della programmazione 14-20 che non erano ancora utilizzati per problemi di cofinanziamento resi liberamente disponibili, le risorse messe a disposizione dai fondi della BEI e del SURE per il rifinanziamento delle spese della cassa integrazione. I soldi del MES se li vorremo. Stiamo vivendo un’epoca unica perché dopo anni di ristrettezze di bilancio la tragedia della pandemia e il cambio di rotta dell’Unione Europea ci proiettano improvvisamente dal mondo del Fiscal Compact e delle ristrettezze di bilancio ad un’era di ricostruzione nella quale il problema è come utilizzare al meglio risorse improvvisamente abbondanti (non senza sapere che usi sconsiderati potranno creare problemi di rientro dal deficit e dal debito in futuro).
E’ per questo motivo che il governo, ma anche alcune amministrazioni regionali come quella del Lazio, hanno sentito l’esigenza di creare task force o indire stati generali per consultare il maggior numero possibile di esperienze professionali e punti di vista al fine di non sbagliare il colpo.
Sulla direzione di marcia ormai non ci sono dubbi e l’allineamento degli orizzonti (tra Unione Europea, governo e opinioni pubbliche) è completo. Le parole d’ordine e i titoli sono quelli comuni della transizione ecologica, della digitalizzazione, della ripartenza resiliente per irrobustire sistema sanitario e renderlo meno fragile e più resistente agli shock pandemici. E c’è piena consapevolezza che semplificazione burocratica, della riduzione dei tempi della giustizia saranno fondamentali per rendere il nostro paese più funzionante e capace di realizzare effettivamente gli investimenti privati e pubblici desiderati.
La vera questione strategica a questo punto è cosa mettere subito sotto questi titoli. Usando un’immagine abbiamo bisogno di “bocce” in grado di colpire simultaneamente sei birilli (creazione di valore economico, occupazione, sostenibilità ambientale, sostenibilità sanitaria, ricchezza di tempo e ricchezza di senso del vivere). Nell’esperienza personalmente maturata nelle task force nazionali e regionali ne vedo molte di possibili. Sulla transizione ecologica lo sono sicuramente l’ecobonus e gli incentivi alla mobilità sostenibile (che spingono verso l’elettrico o l’ibrido) ma anche la novità dello sviluppo delle “comunità energetiche” attraverso il recepimento rapido da noi della nuova direttiva comunitaria in un futuro fatto di comunità che producono, scambiano e vendono sul mercato energia rinnovabile rendendosi in questo modo non solo autosufficienti ma creando valore economico che possono poi destinare ad iniziative sociali.
Due piccole riforme che non costano nulla sono essenziali da questo punto di vista. Primo, una rendicontazione non finanziaria (anche per le aziende sotto i 500 addetti) trasformata da tema libero in un piccolo bilancio fatto di indicatori chiave (di materialità circolare, uso delle rinnovabili, emissioni) che consentano di monitorare il cammino delle imprese verso la transizione che è anche la garanzia della loro competitività futura. Secondo, il raggiungimento di target sociali e ambientali come precondizione per la premialità di manager e lavoratori. Impossibile la transizione ecologica se gli incentivi aziendali muovono in tutt’altra direzione.
Sull’altra grande parola chiave, quella del digitale, sappiamo tutti che la chiave per evitare che si trasformi non in strumento di progresso ma in meccanismo di amplificazione di squilibri sta nel combattere le diseguaglianze di accesso. Lo smart work vorrà ad esempio dire più tempo liberato per tutti non solo se sarà protetto da opportuni diritti sindacali ma anche se sarà veramente accessibile da tutti in egual misura. Per questo motivo è essenziale che l’infrastruttura strategica della banda ultralarga sia un servizio universale (evitando la divisione tra l’Italia di serie A quella redditizia dei grandi centri urbani e quella di serie B delle aree interne poco redditizia e per questo non servita dal privato).
Nel dibattito spesso confuso sul ruolo dello stato e del mercato dovrebbe essere chiaro dove e quando l’intervento pubblico è essenziale e più urgente, ovvero per eliminare le diseguaglianze di accesso a beni e servizi universali e strategici. Più che produrre panettoni lo stato deve assicurare, a maggior ragione in un periodo difficile come questo, che lo shock della pandemia come già quello della crisi finanziaria globale non accentui il fossato dei divari tra i più e i meno abbienti creando inevitabilmente conflitti sociali e offrendo occasioni di risveglio e rinvigorimento alle varie “comunità-contro” del paese. In questa crisi a differenza della precedente le risorse per farlo ci sono. Ed è quindi corretto che una parte importante di esse vada a garantire le pari opportunità promuovendo il rafforzamento del secondo pilastro territoriale del sistema sanitario nazionale, a garantendo l’accesso a scuola (anche quella paritaria senza sperequazioni di trattamento) e all’università di ragazzi e famiglie più colpite economicamente dalla pandemia.
In passato avevamo l’alibi di un’Unione Europea arcigna che ci chiedeva solo sacrifici e rigore di bilancio. Oggi non ci sono più scuse perché L’Europa ci chiede proprio di realizzare i nostri sogni di sostenibilità ambientale e sociale e pari opportunità. Fallire l’obiettivo per ritardi, ostacoli, inefficienze o risse politiche sarebbe veramente grave.
Leonardo Becchetti
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