Sergio Mattarella al Quirinale, per un secondo settennato, è una garanzia preziosa per il nostro Paese, sia in funzione degli equilibri interni, sia in ordine alla credibilità ed alla considerazione di cui abbiamo bisogno nel contesto europeo ed internazionale.

La sincera, convinta indisponibilità, da tempo dichiarata dal Presidente, le motivazioni istituzionali addotte, il profondo rispetto dello spirito della Costituzione, il rifiuto della “monarchia repubblicana”, la residua fiducia nella capacità del sistema di reggersi sulle sue gambe, sono profili che gli fanno onore.

A maggior ragione, l’ ordinamento democratico dell’Italia è ora in mani sicure ed è importante che sia così soprattutto nel momento in cui la vicenda presidenziale ha portato definitivamente alla luce, anche per i ciechi e per coloro che volutamente chiudono gli occhi, la crisi del sistema politico. Talmente palpabile e profonda da tracimare pericolosamente addirittura nel “default” istituzionale della Repubblica.

Un sistema che non è stato in grado di dare al Paese, in un momento drammatico, un Governo secondo le regole della usuale e corretta formazione di una maggioranza politica in Parlamento, si è dimostrato incapace di alzarsi al di sopra degli interessi di parte in cui ogni partito si crogiola e di convergere su una figura che desse sostanza all’Unità del Paese. Se non, appunto, chiedendo a Mattarella di rimettersi, a sua volta, alla volontà del Parlamento, espressione della sovranità popolare.

I due poli sono sfatti, i partiti rotti al loro interno, le segreterie delegittimate. Al punto che i parlamentari riacquistano un sentimento di dignità e una qualche capacità di indicazione solo nella misura in cui sfuggono alla museruola della scheda bianca o delle astensioni, intese come il guinzaglio lungo del padrone che li tiene in pugno anche nella penombra del seggio. L’inconsistenza delle forze politiche, la guida malsicura, improvvisata ed ondivaga che le ha condotte, è stata tale da far temere che, poiché la politica non ammette il vuoto, forme in qualche misura declinate in senso centralista o simil-autoritario – ad esempio, soluzioni in prospettiva, presidenzialiste – potessero finire per apparire suggestive ed accattivanti, al di là della stessa volontà espressa degli attori in campo, appunto per una sorta di attrazione “ex-vacuum”.

Ora non ci sono più alibi. Per nessuno. La Seconda Repubblica è finita. E’ venuta meno perfino ai vantati presupposti della sua stessa origine. Ed ha ingloriosamente concluso la sua corsa quel sistema maggioritario-bipolare che ha trasformato il confronto politico in un “Ok Corral”, il quale, a sua volta, ha inevitabilmente prodotto la sub-cultura della “spallata”. E’ giunto, infine, il momento della responsabilità per tutti e per ognuno, partiti o movimenti, grandi o piccoli, associazioni culturali , prepolitiche o meno, sociali o parapolitiche che siano: società politica e società civile.

E’ bene, è necessario che nessuno si camuffi dentro i cosiddetti “poli”; non coalizioni ricche di un comune riferimento politico-programmatico, ma nude e crude aggregazioni elettorali. Pare farsi strada – perfino presso taluni supponenti, inossidabili campioni del “ sappiamo chi ha vinto la sera stessa del voto” – la convinzione che si debba togliere il cappio del maggioritario dal collo degli italiani, dare respiro all’ Italia, alle fondate culture politiche che la abitano, alle visioni che, più di quanto crediamo noi stessi, ne fanno un grande, civile Paese.

Insomma, come si è discusso, da parte di molti, su queste pagine da quando sono nate, cioè da tempi non sospetti, da qualche anno a questa parte, abbiamo bisogno di una legge elettorale proporzionale che renda l’Italia agli italiani.
A cominciare dalle legioni che disertano, ormai sistematicamente, le urne. Del resto, la governabilità è funzione di una chiara, limpida rappresentanza della sovranità che appartiene al popolo e non viceversa come si è, troppo a lungo, finto di credere.

Domenico Galbiati

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