Il fatto che la delegazione che si è recata da Mattarella per chiedergli di accettare un nuovo settennato fosse composta – su richiesta, pare, dello stesso Quirinale – dai Capi-gruppo alla Camera ed al Senato, e non dai leader politici dei vari partiti, è assai significativo. Contiene infatti un muto rimprovero, o forse una volontà di fare ammenda, del comportamento del personale partitico uscito sconfitto da questa vicenda. Vicenda che ha visto una vittoria della Democrazia, del Parlamentarismo rappresentativo e, indirettamente, dei desiderata del popolo italiano. Il quale d’altronde si era già espresso in altre occasioni, come quella in cui, alla Scala di Milano, il Presidente Mattarella era stato accolto da una spontanea ed unanime richiesta di “bis”.
Per vederla, questa vittoria, bisogna guardare al risultato non già come ad un’affermazione del desiderio di continuità, bensì come al portato del rifiuto di scelte che – soprattutto in quanto destinate a prolungarsi e a produrre effetti per ben sette anni – venivano percepite come pericolose. Basterà citarne tre.
In primo luogo, la scelta per Draghi Presidente, che – nella visione di una quota non trascurabile dei ”grandi elettori” – avrebbe significato non solo una torsione de facto in senso presidenzialistico del sistema istituzionale, ma anche e soprattutto il dominio della cultura bancaria internazionale. Poi, il voto per Casini, cioè un ripiegamento su una personalità capace di destreggiarsi come nessun altro nel piccolo mondo parlamentare, ma che si temeva poco adatto a muoversi sul terreno esterno, dove vive e combatte la stragrande maggioranza degli Italiani, e dove per i prossimi anni – anzi già per i prossimi mesi – sarà inevitabile affrontare sfide di grande momento.
Infine, la incoronazione di Elisabetta Belloni, una straordinaria ex-studentessa, e poi docente, nella facoltà in cui chi scrive ha insegnato per 29 anni, ma una sconosciuta ai più. Una sconosciuta legata a poteri assai temuti, in Italia e all’estero, cui nessuno ha pensato, nello scagliarla nell’arena elettorale, di chiedere di dimettersi dalla sua attuale funzione, prioritariamente ad ogni candidatura.
Tutte e tre erano scelte possibili; ma la loro scarsa saggezza è stata all’origine della “fortissima volontà politica” dell’Assemblea dei 1009 “Grandi Elettori” a favore del rinnovo del mandato al Presidente uscente.
Visione e coraggio di Matteo Renzi
Il rinnovo di Mattarella nella sua alta carica era (insieme alla conferma di Draghi), peraltro tra le scelte proposte sin dall’inizio dal Segretario del PD, Enrico Letta; ma solo come rete estrema di sicurezza per una procedura complessa e a permanente rischio di deragliamento. Nel corso della settimana questa possibilità ha invece assunto un significato diverso; per due motivi. Da un lato perché, sette anni fa, il fatto che fossero la visone e il coraggio di Matteo Renzi a portarlo candidato metteva Mattarella nella luce di un uomo del centro sinistra, mentre nel Gennaio 2022 una assoluta neutralità doveva essere la principale caratteristica del candidato portato alla vittoria dell’insurrezione dei Grandi Elettori contro le burocrazie di partito.
E, dall’altro lato, per il carattere di garanzia da lui offerta nel corso del primo mandato: nulla di cui essere sorpresi, anzi, una manifesta ovvietà. Tanto che nel corso del progressivo affermarsi del nome di Mattarella nel succedersi degli scrutini, i mercati sono rimasti del tutto tranquilli, lo spread non si è modificato, non c’è mai stato rischio di instabilità. Anzi l’inflazione è rimasta in linea con quella degli altri paesi europei, ed un interessante “partito economico della pace” ha potuto senza troppe defezioni discutere virtualmente con il Presidente russo Putin le prospettive dell’interscambio tra i due paesi.
La “Resistenza” contro Belloni
Nel brevissimo discorso pronunciato da Mattarella al momento in cui i Presidenti della Camera e del Senato gli hanno consegnato il verbale portante la decisione dell’Assemblea dei 1009, qualche osservatore particolarmente attento ai dettagli ha notato come mancasse – tra gli accenni fatti dal Presidente della Repubblica alla “grave emergenza che stiamo tuttora vivendo sul versante sanitario, economico e sociale” – ogni riferimento alla situazione internazionale. Eppure è stata probabilmente proprio questa situazione (caratterizzata da presunte minacce militari russe gravitanti sull’Ucraina, da un po’ troppo generose offerte di aiuto a Kiev da parte dei paesi anglosassoni, e dai costanti tentativi del governo ucraino di sdrammatizzare la situazione) che, a Roma, nella decisiva notte tra venerdì e sabato, ha portato ad una vera e propria insurrezione dei cosiddetti peones, contro l’accordo tra Salvini, Conte e Letta per una convergenza dei voti dei loro gruppi sulla candidatura Belloni.
Insurrezione innescata – va detto ad onor del merito – da una clamorosa e coraggiosa pubblica presa di posizione di Matteo Renzi, che ha fatto notare come solo in Egitto (con il colpo di stato del generale Sissi contro il primo dirigente mai democraticamente eletto nel pluri-millennario Egitto) e nella morente Unione sovietica (con Andropov) ci fossero precedenti di un passaggio diretto del responsabile dei servizi segreti alla carica di Capo dello Stato. Insurrezione, a proposito della quale sarebbe stata addirittura utilizzata la parola “Resistenza”, in cui anche Luigi di Maio si è più o meno pubblicamente vantato di aver avuto un ruolo, per essersi ferocemente opposto, “insieme a Guerini”, all’ipotesi avanzata da Conte, Salvini e Meloni, di tentare una spallata pro-Belloni nella votazione prevista per sabato mattina.
Il carattere pericoloso di tale operazione, definita “indecorosa” dallo stesso Di Maio, era stato peraltro messo in luce, nel corso di una nottata caratterizzata da feroci scontri verbali, in cui la spaccatura non è stata tra gruppi non più identificabili per le loro fedeltà politiche, ma tra le due fasce – alta e bassa – del personale politico. E il basso ha infine imposto ai sedicenti “vertici”, rivelatisi largamente impotenti, non solo la propria valutazione del prezioso ruolo di pacificazione e di unità nazionale che poteva (e può) essere svolto dal Presidente uscente, bensì sulle funzioni stesse della Presidenza, con una progressiva presa in considerazione del fatto che essa non ha compiti solo formali e ancor meno solo simbolici, ma poteri effettivi in molti campi, alcuni dei quali assai delicati, come quello dei rapporti internazionali, della gerarchia militare, del sistema giudiziario, nella nomina dei senatori a vita, ed anche nella scelta dei Ministri. Tutti i grandi elettori potevano infatti ricordare come lo stesso Mattarella si fosse fermamente opposto, ed avesse effettivamente bloccato, la nomina dell’antieuropeista Savona a ministro dell’Economia del primo governo Conte.
I nodi del prossimo futuro
Nella mattinata dell’ultimo giorno di questa tornata presidenziale, sabato 29 gennaio 2022, il quadro era dunque chiarito. Preso atto della “fortissima volontà” dei parlamentari e dei rappresentanti delle regioni, le forze politiche facenti parte della maggioranza governativa concordavano di rivolgersi al Presidente della Repubblica per chiedergli, tramite i rappresentanti che abbiamo veduto, il consenso ad una votazione sul suo nome; votazione questa volta non più soltanto spontanea, ma ufficialmente concordata. Votazione in seguito alla quale “Draghi avrebbe potuto continuare a fare Draghi”, sarebbe cioè stata consacrata anche la stabilità del governo nato poco meno di un anno prima in seguito all’iniziativa istituzionale di Mattarella.
Impossibile si era infatti dimostrato perseguire la strada obbligata per un’elezione di Draghi al Colle. Nessuna trattativa condotta in parallelo sulla Presidenza della Repubblica sulla Presidenza del consiglio aveva avuto molte possibilità. Sarebbe tuttavia erroneo credere che tutto sia immutato dopo questa intensa settimana di votazioni, in cui peraltro la principale attività dei dirigenti di partito è consistita nel cercare di impedire ai propri deputati – imponendo pubbliche dichiarazioni di astensione – di esprimere le loro preferenze. Contrariamente alla massima gattopardesca, infatti, è stato acutamente osservato che la politica italiana vivrà d’ora in poi in una situazione in cui nulla è cambiato perché tutto possa cambiare.
Non ci si riferisce ovviamente ai regolamenti di conti, inevitabilmente derivanti dalle meschine contabilità dei perdenti e dei vincenti. Ci si riferisce al fatto che si dovrà anche confrontarsi, e decidere, su questioni drammaticamente importanti ed estremamente urgenti.
Prima di tutto, in campo internazionale, si dovrà prendere posizione relativamente alla non trascurabile divergenza d’opinioni che – sugli equilibri in Europa, sulla cooperazione tra est e ovest della UE, e sui rapporti economici e politici con la Russia (e con la Cina) – silenziosamente contrappone la Germania e l’establishment militare della Nato. Ma anche, last but not least, nel più limitato quadro europeo, ci si dovrà chiarire le idee sulla gestione da parte del Governo Draghi delle risorse europee messe a disposizione dell’Italia, e del pesante debito che ne consegue. Un Governo il cui Capo, anche se forse sconfitto nelle ambizioni presidenziali che si diceva egli nutrisse, potrà godere, nell’ottemperare al compito cui egli è oggi più che mai chiamato, del sostegno del Presidente che in quella posizione lo ha voluto, che indubbiamente avvertirà, nei prossimi anni, tutta la responsabilità che ne consegue.
Giuseppe Sacco