Partita come un’iniziativa di collaborazione in campo ambientale da parte dei due principali inquinatori – che capitavano poi essere le due maggiori potenze economiche e militari del mondo – era facile prevedere che il tentativo di cooperazione tra Biden e Xi Jinping sarebbe rapidamente passato ad obiettivi nettamente più urgenti.

Assai poco si sa di ciò che i due leader si sono detti nella notte tra il 15 e il 16 novembre, durante le  oltre tre ore e mezza di conversazione strettamente secretata, e forse non si saprà in dettaglio per molto tempo. Ma quelle che più parlano sono la prudenza, la scarsità di reazioni, e la vera e propria minimizzazione dell’evento da parte dei governi e dei media occidentali. Un atteggiamento tra sconcertato ed incredulo che ha caratterizzato i pochi giorni – meno di una settimana – intercorsi tra il primo annuncio dell’iniziativa bilaterale sino-americana e l’effettivo verificarsi dell’incontro on line.

Proprio in questo lasso di tempo, in cui l’annuncio dato in contemporanea da Washington e da Pechino  poteva essere  considerato una straordinaria “story” giornalistica, è stato clamoroso il silenzio dei membri di quella che Edward Luttwak bolla come “the interventionist-media alliance” – l’alleanza informale ma ferrea tra i media e il “partito della guerra”; un’alleanza che non cessa mai di agire negli Stati Uniti e forse ancor più nei paesi suoi alleati.

Più realisti del Re

Questi centri di  potere politico ed economico hanno anzi dato la sensazione di sentirsi quasi offesi e traditi dall’improvviso spiraglio apertosi in una situazione che sino ad allora stava rapidamente evolvendo verso lo scontro aperto.

Che i cortigiani siano spesso più realisti del Re, non è cosa nuova. Lo si era visto  già nel 2009, quando Biden, da Vice Presidente, spingeva – come ricorda ancora Luttwak – a tirarsi fuori dalla trappola dell’Afghanistan. E gli stessi personaggi e gli stessi interessi economici che oggi fanno ostruzionismo alle iniziative de Presidente cattolico persuasero invece Obama ad andare avanti con il “tirare a campare della guerra anti-insurrezionale” e  con quella colossale “frode” che si è rivelata poi la creazione di un esercito afghano sull’incongruo modello di quello americano. E lo si è visto ancora in questi ultimi mesi, in tutto il campo occidentale, dove la scarsa rigidità e la natura articolata dello schieramento anti-cinese fa sì che si sia venuta a determinare una sorta di gara al rialzo per chi, tra i molti attori politici e propagandistici, sia più zelante nel sostegno al paese leader, e nel denunciare la malvagità e le pecche dell’avversario.

Nei confronti della Cina, questa poco nobile gara ha prodotto negli ultimi mesi effetti paradossali. Caduta quasi del tutto in desuetudine la formula della “trappola di Tucidide”, che metteva troppo sullo stesso piano storico-politico i due rivali, tutti o quasi quelli che avevano occasione per unirsi al coro si sono dedicati a dire di Pechino e del suo regime “tutto quel mal che in bocca lor venìa”. E ciò tanto che si trattasse delle egemoniche ed aggressive intenzioni di Pechino nel quadro internazionale, quanto della natura oppressiva e inefficiente del “socialismo con caratteristiche cinesi” imposto dal PCC ad un miliardo e mezzo di esseri umani.

All’origine della minaccia cinese

Nessuno, o quasi si è dato cura di rilevare la contraddittorietà di questa “narrativa” della Cina contemporanea. Se infatti la Cina di Mao, d Deng e di Xi Jinping può oggi apparire come una minaccia politico-militare rivolta contro la potenza che è stata egemone nei ultimi ottant’anni, è per l’estremo dinamismo della sua macchina produttiva. Cioè perché la formula economica adottata dopo il 1976 si è rivelata decisamente efficace, ed estremamente attrattiva di investimenti internazionali, in primo luogo americani.

Se il suo slancio economico dovesse arrestarsi, se davvero la società cinese fosse quel groviglio di corruzione, oppressione ed inefficienza che i troppo zelanti sostenitori di un’America bellicosamente anti-Pechino non cessano di descrivere, anche la minaccia politico-militare ne risentirebbe; anzi non sarebbe mai nata. Un paese di schiavi (o quasi), vittime di un implacabile sistema di sfruttamento è quasi sempre, sotto il profilo dell’efficacia, una “tigre di carta”, come alla fine ha dimostrato di essere  perfino l’URSS. E difficilmente la Cina potrebbe costituire, per gli Stati Uniti, quel rivale geopolitico, quella minaccia militare, quel candidato alla successione egemonica, contro il quale da ogni pulpito – stabilito o improvvisato – l’Occidente viene continuamente chiamato a stringere i ranghi ed esortato a tenere ben asciutte le proprie polveri.

Un osservatore malizioso potrebbe perciò vedere, nell’iniziativa di pace in cui Biden ha coinvolto Xi Jinping, come un’esortazione diretta soprattutto ai propri seguaci e sostenitori. Cui i due uomini più potenti del mondo suggeriscono, come avrebbe detto Talleyrand: “Surtout pas trop de zèle, Messieurs ! ( Soprattutto, poco zelo, Signori, ndr )

Giuseppe Sacco

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