Leggendo i vari discorsi di Greta Thunberg, e uno fra tutti quello all’Onu del settembre scorso in cui primeggia il suo “how dare you!” (come osate!) – che vuole sintetizzare lo sdegno e l’esecrazione dei giovani verso i meno giovani – sembra che sia ineluttabile lo scontro tra generazioni. I mass media enfatizzano e celebrano questo scontro e lo danno per un dato di fatto inoppugnabile e, in qualche modo, positivo, perché foriero di trasformazioni sociali. Gli stessi quarantenni, cinquantenni e ultra cinquantenni mostrano di apprezzare questa aggressività, godendo di questa fierezza giovanile.
Ma è proprio così? può essere accettabile un grosso e sordo scontro, di per sé stesso dilacerante, tra padri e figli, tra nonni e nipoti per il buon futuro dell’Umanità e del sistema Terra? Si avverte, in tutto ciò, una convinzione di fondo, che l’istinto di sopraffazione sia connaturato all’esistenza umana (homo homini lupus). Echeggiano: “Vi teniamo d’occhio; avete rubato i miei sogni e la mia infanzia; ci state deludendo” e così via. Ma è possibile che solo da un conflitto, per altro, così duro, possa aversi un beneficio e salvezza per il genere umano, come fanno intravedere i media e tanti intellettuali?
Un atteggiamento più positivo e costruttivo, che entri nel merito delle questioni, che riscopri la fiducia tra le generazioni e non le fratture, che accresca la conoscenza e la coscienza delle cose fatte e da fare, non potrebbe portare l’opinione pubblica mondiale, più naturalmente, ad atteggiamenti responsabili ed a produrre un’alleanza, invece della contrapposizione, tra le generazioni, foriera di benefici e conquiste condivise?
E’ irrimediabilmente persa, tanto da dover opporsi ad essa con toni così duri? Questa lettura di un mondo aggressivo, da cui derivano anche gli attacchi alle generazioni meno giovani, ha una tradizione culturale consolidata. Questo luogo comune, pur apparendo falso e lontano dalla “vera” realtà agli uomini e donne dall’intelletto libero, fornisce i presupposti concettuali su cui si basano, nel tempo attuale, le politiche dominanti, che captano l’attenzione ed il consenso acritico di masse di elettori, mostrando un senso di fierezza ed aggressività egoistica. Questo atteggiamento di sopraffazione avalla comportamenti politici sovranisti, che negano uno sviluppo armonico e pacifico! La visione consolidata di una vita, abbarbicata alla convinzione che la ricerca compulsiva della ricchezza sia un valore assoluto, concentrata sulla rendita, e che nega valore ai beni economici fondamentali, ai beni relazionali, ai beni comuni ed ai beni di gratuità, va messa in discussione.
La generazione del baby boom, grazie all’allungamento della vita, ha ancora qualcosa da fare e dare alle giovani e future generazioni: deve favorire una profonda, sincera e rapida riflessione sugli errori (a volte orrori!) compiuti, sul modo di leggere la civile convivenza e porsi al fianco delle nuove generazioni per trovare soluzioni favorevoli per loro futuro, che nessuno si augura a fosche tinte! I baby boomers sono nati in un periodo di grande incertezza ed allo stesso tempo di grande espansione, che spazia dalla guerra mondiale e da quella fredda, alle grandi conquiste tecnologiche e biotecnologiche, al passaggio dall’era dell’Olocene a quella Antropocele (Crutzen, 2000) e alla Grande Accelerazione (Conferenza di Dahmen, 2005). L’Umanità, con essi, è diventata una forza geologica su scala planetaria nel solo giro di tre generazioni (Steffen, 2015).
Essi, per altro, di questi straordinari cambiamenti se ne sono resi conto non durante, ma solamente dopo, che sono avvenuti. Erano troppo convinti della validità dei fondamenti dell’economia politica, dominante, di tradizione anglosassone, come metodo di approccio al loro lavoro e troppo presi nel cercare di combattere la povertà, a rendere agevole il reperimento e l’utilizzo dei mezzi di produzione, a ricercare la libertà dal bisogno, ad aumentare il benessere fisco delle popolazioni. Non è un caso, per altro, che il ripensamento dei boomers sulle cose fatte ed accadute è iniziato durante la grave crisi del capitalismo finanziario del 2007, che ancora non è finita. È vero che sono passati una trentina di anni da quando i primi scienziati hanno cominciato a riflettere sulla situazione determinatesi, ad ammonire sul disastro ecologico incombente, ma la conversione di un’opinione pubblica generazionale è più lenta, molto più lenta, della Grande Accelerazione dei nostri tempi e questo delta tra velocità-accelerazione delle conquiste tecnologiche e quella del cambiamento di mentalità di una generazione è un’esperienza unica, del tutto originale, nella storia dell’uomo. È in questo, che si divaricano le generazioni: quelle non giovani, che devono cambiare mentalità e le giovani (Millennial e Generazione Zeta, tutti nati dagli anni ‘80 in poi), che sono già nate nel cambiamento.
Ma le guerre, anche generazionali, non servono, incolpare i “grandi” non serve, se non a coloro, che, cinicamente ed egoisticamente, vogliono portare questi problemi, enormi e gravissimi, nellarappresentazione mitica e distogliere, da questi, quella maggioranza di uomini e donne, né cinica, né egoista od aggressiva, che deve solo convertirsi nel proprio agire, conoscendo e penetrando questi grandi problemi. Su queste tesi converge il pensiero di Jennie Bristow, sociologa inglese, che ha pubblicato, nel giugno scorso, un libro, edito da Yale University Press, dal un titolo particolarmente efficace Stop mugging grandma (finitela con l’assalto alla nonna). La Bristow porta numerose tesi, che confutano i luoghi comuni dell’ineluttabilità della guerra generazionale e le ragioni artificiose, proposte alla base di questa, che considera senza vere radici. Tuttavia, il seguito raccolto da Greta tra i giovani è molto alto, forse, è il punto più alto mai raggiunto da uno scontro generazionale. A sostenere questa drammatico scontro non è solo la resistenza delle generazioni meno giovani ad approcciarsi ai cambiamenti climatici ed ambientali, ma anche ciò, che è avvenuto e, purtroppo, ancora sta avvenendo (si pensi all’Amazzonia!) e cioè lo scriteriato utilizzo dei commons (beni comuni: acqua, aria, biodiversità, ecc.), la poca credibilità di un pensiero debole imperante ed una conseguente politica, che avalla comportamenti opportunistici, egoistici a scapito delle generazioni giovani e future allo scopo di garantire il benessere, raggiunto solo da pochi “dominanti”.
È una crisi della globalizzazione, sono fenomeni geoeconomici di portata epocale, quali quelli della quarta rivoluzione industriale, dell’aumento sistemico delle diseguaglianze sociali, degli straordinari flussi migratori, della caduta di valori etici, sia nel privato, che nel pubblico e, non solo, delle questioni ambientali e climatiche, che portano, di fatto all’idea, che il domani sarà peggiore del passato e del presente e ciò fa paura alle nuove generazioni, che reagiscono con aggressività. Qui sta la pericolosità regressiva della “invenzione” del conflitto generazionale. Si creano teorie e movimenti senza fondamento nella realtà sociale, ma che frustano terribilmente l’impegno comune cooperativo a migliorare il modo di oggi e quello futuro. Ciò che non convince è l’idea che tutto dipenda dall’avidità e dall’incoscienza dei “grandi”, sic et simpliciter e, se anche lo fosse, non si potranno risolvere questi enormi problemi con una contrapposizione generazionale, serve, ed è urgente, una cooperazione tra generazioni. Il comportamento cooperativo, tuttavia, ancor oggi, nel mainstream socio-economico, viene considerato un elemento negativo perché fa aumentare l’idoneità di chi è gratificato, rispetto all’elemento dominante. In questo modo il dominante, cioè chi è selezionato per la sua aggressività, fisica e/o mentale, “cede” qualcosa delle “sue” conquiste ad un elemento, non meglio selezionato. Le passioni ideali della solidarietà e della tensione civica, pur presenti intrinsecamente nella natura umana, sono sostituite da egoismi sociali e dall’individualismo libertario. Non basta allora “ri-formare”, occorre piuttosto “tras-formare” avanzando un nuovo modello di sviluppo ed una nuova Politica dovrà gestire questa “trasformazione”. La “Economy of Francesco”, proposta in nome di San Francesco, da Papa Francesco può essere centrale a questo bisogno e rispondere a questa emergenza di trasformazione. Essa è un epocale contributo alla realtà “più intima” del creato. È un appello per un modello socioeconomico nuovo, frutto della cultura della cooperazione, basato sulla fraternità e sull’equità, inscritto nella ricerca della “felicità”. Echeggiano nell’appello ai giovani di Papa Francesco, i fondamentali dell’Economia Civile di Antonio Genovesi, riproposta nella nostra realtà da Zamagni, iniziando dal concetto della Fiducia dei Francescani del XIV secolo, dalla Felicità, come esercizio delle virtù, di Gaetano Filangieri ed, in fine, considerando l’economia, come luogo della Reciprocità.
Il raduno ad Assisi, voluto da papa Francesco, seminerà a partire dai giovani perché, come dice il Papa “voi giovani (perché,) con il vostro desiderio di un avvenire bello e gioioso, voi siete già profezia di un’economia attenta alla persona e all’ambiente” e tuttavia “Di fronte a questa urgenza, tutti, proprio tutti, siamo chiamati a rivedere i nostri schemi mentali e morali”. Non va, pertanto, trascurata la generazione dei meno giovani e va ribadito che non è vero, che questi siano insensibili e tutti chiusi nei loro egoismi. Una pluralità di sensibilità, un porsi in discussioni anziani, meno anziani e giovani può portare tutti ad una conversione, prima di tutto dei cuori, verso una sentita cooperazione tra le generazioni, che solo alcuni vogliono belligeranti. Un’alleanza di tal genere è l’unica via per una rapida inversione di tendenza, a fronte dei tempi, che si restringono sempre di più.
Alfonso Barbarisi
Presidente dell’Associazione italiana docenti universitari
Articolo pubblicato da Famiglia Cristiana ( CLICCA QUI )