Si diffonde in modo crescente la c.d. Gig economy, o “economia dei lavoretti”: secondo stime dell’INPS, nel 2020 essa avrebbe riguardato più di mezzo milione di lavoratori. È una realtà eterogenea, che si concretizza spesso in forme di precariato, cui finora il legislatore ha posto rimedio in modo parziale.

1. La Gig economy – espressione che può liberamente tradursi ” economia dei lavoretti” – non va confusa col più vasto insieme dell’economia digitale e con il mondo del food delivery, che è soltanto uno dei suoi settori.

L’avvento dell’economia digitale ha fatto nascere nuove opportunità, sia per i produttori che per i consumatori. A oggi basta possedere uno smartphone e una connessione internet per avere accesso a molteplici servizi, a cominciare dal cibo a domicilio, semplicemente recandosi nel negozio di applicazioni del proprio dispositivo e scaricando l’applicazione desiderata tra le varie disponibili. Dopo il processo di registrazione, e dopo il rilascio del consenso per cui l’applicazione è costantemente a conoscenza della posizione attuale di chi utilizza l’applicazione, l’utente può ordinare ciò che vuole, pagando in contanti alla consegna o con carta di credito in fase di ordinazione. In base all’orario di consegna scelto, l’ultimo passo di questo veloce e intuitivo processo riguarda l’arrivo dei ciclofattorini (i cosiddetti riders) nel luogo designato alla consegna, i quali consegnano l’ordine, pronti poi a ripartire per eseguire le altre consegne previste. Un ruolo fondamentale lo rivestono gli algoritmi delle applicazioni che, sulla base di previsioni statistiche, calcolano il fabbisogno necessario per soddisfare la domanda dell’utenza in una determinata area e fascia oraria.

2. La relazione – di tipo orizzontale – fra produttore e consumatore è funzionale all’analisi in chiave giuslavoristica dei rapporti di lavoro che si sviluppano su piattaforma. In particolare, tale relazione risponde alla logica peer to peer, intesa quale condivisione di risorse e servizi tra computer, abilitati a comunicare e a condividere files e altre risorse, invece di passare attraverso un server centralizzato: chi richiede il servizio o la risorsa non si trova a un livello gerarchico inferiore, i partecipanti sono alla pari, nel senso che non dovrebbero sussistere, in un modello così predisposto, asimmetrie informative.

Ci si potrebbe chiedere cosa accade alla logica peer to peer quando il produttore e il consumatore si incontrano tramite una piattaforma informatica, ossia se tale logica coinvolga anche i rapporti fra produttore e piattaforma digitale, o meglio fra lavoratore (inteso, nel linguaggio della Gig economy, come colui che produce il bene o il servizio) e piattaforma. Ciò che risulta problematico – e per questo rende distante il modello collaborativo da quello dell’economia dei lavoretti – è se la piattaforma agisca come un mero intermediario o se, per certi versi, sia un soggetto dotato di veri e propri poteri datoriali.

In altri termini, se nel modello collaborativo la piattaforma è davvero soltanto uno strumento per l’incontro fra il soggetto richiedente e colui che mette a disposizione il bene o il servizio, la neutralità di tale ruolo comincia a venire meno: la piattaforma è decisamente più invasiva allorché si occupa di mettere in relazione il “produttore” e il consumatore, in quanto può operare una selezione, seppure in base a requisiti trasparenti, fra quanti forniranno il bene o il servizio (nella gran parte dei casi provvede non solo a gestire i pagamenti, ma si serve di riscontri degli utenti per stimare la “reputazione” digitale del “produttore” e valutare una sua eventuale collaborazione) e quanti lo richiedono. Dal punto di vista tecnico, l’utilizzo di big data e di dispositivi quali gli Smartphone per la gestione di relazioni economiche crea le condizioni per un abbattimento radicale dell’asimmetria informativa e, dunque, per un miglioramento potenzialmente generalizzato delle condizioni contrattuali ed economiche.

3. D’altra parte la divergenza degli interessi, la differenza nei rapporti di forza tra le piattaforme e il lavoro e, non ultima, la proprietà privata delle tecnologie preposte ad archiviare e a elaborare le informazioni – in particolare, le informazioni connesse alle modalità di espletamento della prestazione lavorativa e alle caratteristiche del lavoratore – aprono la strada ad uno squilibrio ancor più accentuato  che va a sfavore della tutela del lavoro.

Ciò risulta evidente nelle condizioni di precarietà vissute dai lavoratori delle piattaforme, nonché nella capacità delle piattaforme stesse di esercitare forme rilevanti di controllo ed eterodirezione delle prestazioni. Il rapporto fra il “piccolo imprenditore” e la piattaforma non è paritario; d’altro canto, pur detenendo alcuni poteri datoriali, la piattaforma non agisce propriamente come un datore di lavoro: di qui la difficoltà di dare una qualificazione univoca al lavoro che nasce nell’alveo delle piattaforme digitali.

4. Negli ultimi anni il settore del food delivery italiano ha conosciuto una crescita in termini sia di aumento di ordinazioni sia di numero di organizzazioni presenti sul mercato. Se nel 2011 il primo ed unico attore era JustEat, a oggi le startup di food delivery presenti sul territorio nazionale sono molte di più. Esse variano da startup nate e operanti in Italia e startup internazionali che operano anche da noi. Tra le principali ricordiamo JustEat; PrestoFood; MyMenu; CosaOrdino; Deliveroo; Foodracers; Glovo; Moovenda; Sgnam; Uber EATS.

Ciò che emerge riguardo allo stato dell’arte della gig economy e del food delivery in Italia è una situazione di forte eterogeneità, dovuta al fatto che i due fenomeni, di recente nascita e sviluppo, non hanno ancora conosciuto una regolamentazione uniforme a livello nazionale. Infatti, a seconda delle piattaforme digitali variano le tipologie contrattuali, i compensi, i diritti e le tutele per i lavoratori del settore.

Inoltre in una nazione come l’Italia, caratterizzata da un alto tasso di disoccupazione e con una quota rilevante di lavoratori autonomi, il settore si è diffuso in una sorta di “terra di mezzo”, in cui nuove opportunità di lavoro si sono mescolate a gravi abusi e a nuove forme di sfruttamento, come di recente emerso nella recente indagine sui riders di febbraio 2021 effettuata dalla Procura di Milano. Ne sono scaturite pesanti multe per la violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e l’obbligo di assunzione dei ciclofattorini come lavoratori subordinati in capo ad alcune società titolari delle piattaforme.

5. La mancanza di diritti e tutele dei gig workers sta spingendo i lavoratori di questo settore, e non solo – si pensi al primo sciopero organizzato dai lavoratori di Amazon – a mobilitarsi per rivendicare diritti relativi alla regolamentazione dell’orario di lavoro, alla sicurezza e a un controllo non invasivo del comportamento durante i turni di lavoro. Il diritto a una giusta retribuzione, alla tutela della sicurezza sul lavoro, al trattamento per la malattia, alla copertura assicurativa e previdenziale sono ciò che i riders chiedono alle piattaforme digitali e alla politica. Quelli che per alcuni lavoratori sono infatti diritti standard, per i lavoratori dell’economia digitale sono ancora diritti da conquistare attraverso la mobilitazione.

Sebbene vi sia molta strada da percorrere, sotto il profilo della tutela dei ciclo-fattorini non siamo all’anno zero: che la legge n. 128/2019 attribuisce a tali lavoratori tutele differenziate a seconda che la loro attività rientri o meno nella nozione generale di etero-organizzazione di cui al d.lgs n. 81/2015 ovvero a quella disciplinata dall’art. 4-bis del medesimo decreto quanto ai ciclo-fattorini autonomi, fatta salva la configurabilità, qualora ne sussistano i presupposti dell’art. 2094 cod. civ., della sussistenza del rapporto di lavoro di lavoro di tipo subordinato.

Daniele Onori e Lorenzo Jesurum

 

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