Non credo ch’io possa meritare oggi, dopo una fase in cui il mondo è profondamente cambiato, il titolo di “unico maschio femminista che lei conoscesse” con cui Adele Cambria – una brillante saggista e collaboratrice del “Mondo” di Mario Pannunzio – mi onorò nel presentarmi la scrittrice americana Susan Sontag. E mi domando se davvero lo meritassi anche allora, quel titolo, viste le contrastanti reazioni ch’io ebbi, quella mattina di Sabato 27 Febbraio 1971, esattamente cinquanta anni fa, non appena misi piede, del tutto casualmente, al Teatro Centrale, a Roma, giusto accanto alla sede nazionale della DC.

Quel teatro non era molto lontano dall’appartamentino in cui vivevamo, io e Daniela Colombo, la ragazza che avevo sposato appena qualche mese prima. Abitavamo in soli quaranta metri quadri, adatti forse ad uno scapolo giramondo quale ero stato sino ad allora, ma certo insufficienti per una coppia. Eppure esitavamo a lasciale, quelle due stanzette, poste com’erano al secondo piano di un fabbricato pieno di sole, in una tranquilla piazzetta romana, Piazza Capo di ferro, allietata giorno e notte dalla musica di una fontana antichissima. E poi, le sue finestre davano giusto di fronte al cinquecentesco Palazzo Spada, la cui la facciata è così intensamente coperta da statue e decorazioni di gusto rinascimentale da consentire a Borromini, quando vi mise le mani, un secolo più tardi, di farne un testimone del passaggio allo stile barocco.

Quei quaranta metri quadri erano veramente pochi, e c’era posto solo per un lettino grande si e no una piazza e mezza.  Ma noi, del fatto che fosse troppo piccolo per due persone, non ce ne eravamo mai accorti. E quando una nostra amica, più anziana di noi, e che aveva avuto la sfortuna di non potere aver figli, ce lo fece notare, solo per non dispiacerle non ci mettemmo a ridere. A noi, che dormivamo sempre abbracciati, attaccati come due cozze allo scoglio, bastava e avanzava.

Un problema un po’ più complicato era posto però dal fatto che avessimo solo un tavolino, che doveva fungere anche da scrivania per due persone, una delle quali lavorava in Rai, e l’altra era al suo secondo anno della carriera universitaria. Cosìcché, di tanto in tanto, quando uno dei due aveva qualcosa di impegnativo da scrivere, la soluzione migliore era che l’altro uscisse a far due passi nei vicoli del quartiere, tortuosi e oscuri budelli che d’improvviso sbucavano in piazze grandiose. E fu quello che feci, appunto, al mattino di quel Sabato 27 febbraio.

I primi dieci minuti di passeggiata furono, come sempre, molto piacevoli. Finché, mentre costeggiavo le “stanze” dove aveva abitato Sant’Ignazio di Loyola, non cominciò a piovigginare, il che mi spinse a fare dietro-front per avviarmi verso casa.  E fu allora che dall’altro lato della piazza vidi, accanto all’ingresso del Teatro Centrale, in un grande riquadro rosso, la scritta “Primo congresso del Movimento per la Liberazione della Donna”. La curiosità mi spinse ad entrare; e subito ebbi la sensazione di aver come varcato una soglia tra due mondi: la tranquilla bellezza di Roma al mattino di un giorno festivo, e l’estrema confusione di una affollata taverna in cui tutti litigavano con tutti, in appassionati battibecchi che pareva si stessero sfidando a “braccio di ferro”.

Il palcoscenico era vuoto, ma il resto del teatro era affollato di ragazze e di donne di tutte le età. E ribolliva di voci. Tanto che, nel brusio generale, a malapena si distinguevano le parole, amplificate da un altoparlante che qualcuno – chiaramente di sesso femminile – cercava di indirizzare all’insieme del pubblico.

Il fatto che la persona che era al microfono parlasse dalla platea rendeva impossibile vederla e capire chi fosse. Così, non essendo riuscito a farmi largo per vedere meglio, in realtà perché esitavo a sgomitare in una folla così particolare, cercai di informarmi; e dopo alcuni tentativi andati a vuoto, una ragazza dall’aria gentile, ma che chiaramente mi considerava un intruso, acconsentì a fare un nome – Carla Lonzi –, che subito mi diede un indizio per capire la situazione.

Carla Lonzi era già allora una figura assai nota. Un suo libro dal titolo-shock, uscito un anno prima, “Sputiamo su Hegel”, aveva infatti creato un caso politico-culturale, perché contestava non solo la visione che della donna e del suo ruolo sociale avevano avuto Hegel e Freud,  ma anche quella di Karl Marx, il che  in quegli anni era peggio che – nei cent’anni precedenti – parlar male di Garibaldi. Ed era poi, Carla Lonzi, la leader del gruppo “Rivolta femminile”, una piccola setta femminista molto intellettuale, e rigidamente “separatista”.  Nel senso che non ammetteva che gli uomini lottassero a fianco delle loro compagne per una vera eguaglianza tra i sessi; e che quindi non li avrebbe neanche voluti in sala in quel week-end di febbraio.

Cosicché non rimasi sorpreso quando mi fu spiegato anche, che poco prima del mio arrivo, una parte del pubblico aveva contestato non solo la Presidenza, ma anche l’uso del palcoscenico da parte la parte di chi prendeva la parola, sostenendo che questi si sarebbero altrimenti trovati in posizione egemonica. Cosicché chi voleva dire la sua doveva parlare dalla platea. Il che aveva trasformato la riunione in un’autentica baraonda.

Ripensandoci oggi, a cinquant’anni esatti da quell’evento, può naturalmente sembrare strano che in un congresso volto alla fondazione di un movimento politico il cui intento era proprio quello di dare un minimo di carattere strutturato ad un fenomeno sociale, la crescita delle aspirazioni femminili alla dignità, qualcuno abbia potuto ostacolarne il lavoro prendendo a pretesto il fatto che chi prendeva la parola salisse su un palco.  Ma erano anni in cui si contestava tutto, e talora senza alcun motivo ragionevole. In quella circostanza poi, la cosa era particolarmente grottesca.  Nessuno poteva infatti negare che le donne fossero state fino ad allora, e che erano ancora largamente, in una posizione subalterna e di emarginazione, e che il solo fatto di essersi riunite a congresso aveva già certamente richiesto una grande dose di coraggio e di volontà rivoluzionaria. Né negare come quei battibecchi tra donne congiuntamente impegnate a conquistarsi una nuova dignità finissero invece per ricordare i classici “polli di Renzo” che, legati per i piedi e appesi a testa in giù, non trovavano niente di meglio da fare che beccarsi tra di loro.

La fondamentale differenza di opinioni tra le due principali componenti femministe presenti al Teatro Centrale, la vera ragione del contendere era però un altro: se alla lotta per la liberazione della donna potesse essere concesso anche ai maschi di partecipare, sia che fossero compagni di vita o semplici sodali politici. La contestazione alla Presidenza, all’inizio installata sul palcoscenico, era peraltro nata proprio dal fatto che di essa facevano parte alcuni esponenti dell’altro sesso. Eppure, una volta che Rivolta femminile l’aveva spuntata su questo punto di tipo procedurale, il problema restava intatto: e sul diritto “degli uomini” di partecipare a combattere quella che a me sembrava una generale battaglia che interessava i “diritti dell’uomo”, cioè i diritti e i doveri di tutta la famiglia umana.

Al di là del dissidio di fondo, da un punto di vista di un testimone oculare, debbo aggiungere che trovai molto commovente tutto quel che avveniva quel sabato di Febbraio 1971 al Teatro Centrale. Non solo per lo sforzo manifesto che molte delle partecipanti facevano per essere più aggressive e meno dolci di quanto la loro natura e l’educazione femminile non le portasse spontaneamente ad essere. Ma anche per la tolleranza almeno iniziale dimostrata nei confronti dell’evidente interesse per il movimento da parte del Partito Radicale. Il tentativo di farne, come avrebbe detto con severità Carla Lonzi, il proprio “reparto femminile”.

E ancor più trovai commovente la tolleranza – francamente eccessiva, questa – con cui venne accolto l’intervento di alcuni “goliardi” che ostentavano persino il tradizionale berretto a punta, che si credeva ormai caduto in desuetudine dopo la ventennale fase degli organismi rappresentativi universitari, e ancor più dopo i movimenti studenteschi del 1968.  “Goliardi” che, impadronitisi del microfono, ed ovviamente recuperata la posizione sul palcoscenico del teatro, suggerirono a quel pubblico di donne che sembravano sbigottite dal coraggio da esse stesse sino a quel momento dimostrato, di rinunciare alla loro iniziativa, e di affidare la difesa dei loro diritti ad un gruppo di “uomini validi”. Come scrisse qualche giorno dopo “L’Espresso”, insomma, “nulla è mancato al primo congresso dell’MLD che potesse declassarlo a mero episodio di colore”.

Sotto un profilo meno emotivo, e più politico, quello che vedevo accadere sotto i miei occhi mi parve un importante frutto della più generale battaglia per i diritti civili che in Italia era stata in quegli anni condotta, e in cui le donne italiane, pur essendovisi impegnate, erano rimaste marginali. Quel tanto di progresso nella condizione civile della donna italiana effettuato proprio in quegli anni era dunque come caduto su loro dal cielo; piovuto assieme al cosiddetto “miracolo economico”, piuttosto che dovuto all’impegno e alla lotta delle donne stesse.  Un po’ come la liberazione degli schiavi degli stati del sud dopo la guerra civile americana, avvenuta in conseguenza di un cambiamento degli equilibri tra forze socio-politiche legate alla produzione di beni primari agricoli e quelle legate all’industria bisognosa di forza lavoro salariata.  Mi sembrava, insomma, quella cui godevano dopo la guerra le donne italiane una libertà più che conquistata dalla lotta delle donne stesse, una libertà octroyée dall’innegabile progredire della società italiana. E dal fatto che questa, verso la metà degli anni cinquanta si era avvicinata alla piena occupazione maschile, schiudendo sul mercato del lavoro spazi sino allora preclusi alle donne. Con la conseguente moltiplicazione delle famiglie plurireddito, e quindi con una modificazione del ruolo e del prestigio della donna nei confronti del coniuge.

­Ma soprattutto, le ore passate in quel teatro, tra quelle donne che mi parvero alla ricerca di nientemeno che di un mondo nuovo, e di una loro dignità in esso, mi fecero pensare a quel che aveva narrato un coraggioso autore americano, Howard Fast, nel suo Freedom Road, romanzo storico in cui è magistralmente descritto lo smarrimento dei Neri degli Stati confederati dopo la guerra di Secessione; una guerra combattuta quasi esclusivamente tra bianchi, e che per otto anni – finché durò l’occupazione militare del Sud da parte dell’esercito unionista – li aveva posti di fronte alla sfida di dare contenuto concreto alle libertà e alla parità loro legalmente riconosciute. Perché a questa stessa sfida mi parvero essere confrontate quelle straordinarie donne che si erano riunite al Teatro Centrale.  Donne straordinarie, ripeto. Perché anche se erano in gran parte giovani e giovanissime, per la maturità che finivano per dimostrare, non mi è mai parso, né allora né oggi, di poterle chiamare “ragazze”.

Era anche chiaro, peraltro, come il movimento per la liberazione della donna in Italia fosse, almeno in parte una reazione un po’ tardiva, ma in definitiva positiva, delle agitazioni studentesche del 1968, e di quelle operaie che ad esse avevano fatto seguito nel 1969. Agitazioni cui le donne avevano partecipato, ma che le avevano comunque viste relegate in ruoli marginali e subordinati, in particolare quello di “angeli del ciclostile”.  Ed era anche – se non soprattutto – un derivato dalla battaglia per il divorzio, che si era vittoriosamente conclusa il 1 dicembre 1970, il giorno in cui era stata introdotta, nell’ordinamento giuridico italiano, la Legge Fortuna-Baslini.

Ma altrettanto chiaro era tuttavia come la battaglia non fosse terminata. Anzi, il primo congresso dell’MLD, il 27-28 febbraio 1971 si svolgeva infatti dopo che, il 1 febbraio di quello stesso anno, le forze conservatrici avevano già avviato le procedure legali per un referendum abrogativo della legge stessa. E dopo che molte, a cominciare da Carla Lonzi, avevano già capito, dalle contraddizioni interne apparse manifeste sin dai primi di Marzo 1968, in particolare a Valle Giulia, che le femministe dovevano distaccarsi da quella matrice, e prendere una via autonoma rispetto al ramo che partorirà il terrorismo, il collegamento con servizi stranieri tutt’altro che rivoluzionari, l’assassinio di Moro, e tutti i cupi crimini delle Brigate Rosse.

Dalla mia “passeggiata”, quel sabato mattina, tornai a casa molto più tardi di quanto avevo previsto. E mia moglie, che a differenza di me era al corrente dell’evento in cui ero finito pe caso, e a cui dispiaceva non poco di non poter essere stata presente, si fece raccontare per filo e per segno tutto quel che avevo visto e sentito, chiedendomi anche più volte di tornare sui dettagli. Si interessò specialmente al gruppo di Rivolta femminile, di cui temeva un po’ l’influenza, e non condivideva il separatismo, nonché l’ostilità all’ipotesi di federare l’MLD con un partito politico, anche se molto anomalo, come quello radicale. Mi bombardò di domande, tanto che alla fine le proposi, e insieme decidemmo, di tornare al Teatro Centrale l’indomani, una volta che avesse terminato di scrivere il testo che l’aveva tenuta inchiodata, anche di sabato, al nostro unico tavolino.

Ci lavorò buona parte della nottata, mentre io stentavo ad addormentarmi nel nostro piccolo letto, disabituato com’ero a trovarmici da solo. Cosicché, all’indomani, fummo tra i primi ad arrivare al Teatro, e ad insediarci nelle poltrone di una platea che portava ancora i segni delle baruffe del giorno prima. Dal Primo Congresso dello MLD, il teatro Centrale uscì infatti quasi devastato. Ci fu, ad un certo punto, persino un principio di incendio, quando un operatore televisivo aveva avvicinato troppo una lampada al sipario. E per togliere la parola al proprietario del teatro, che voleva solo esortare il pubblico ad un po’ di calma, i cavi del microfono erano stati persino tranciati di netto. Mancò poco che ci fosse anche una carica della polizia, come invece avverrà una settimana dopo, l’otto marzo, a Campo dei Fiori, con violenze in cui verrà coinvolta anche Jane Fonda, accorsa attraverso l’Atlantico a sostegno delle sorelle italiane.

L’atmosfera generale quel secondo giorno, però, divenne nel complesso più serena, dopo che una “scissione “messa in atto da Rivolta femminile aveva lasciato il campo – con un pubblico ancora numeroso, anche se dimezzato – ad un dibattito che progressivamente si focalizzò sulle strategie da mettere in atto nel quadro della federazione tra MLD e partito radicale. Un dibattito che – ebbi modo di notare – suscitò un interesse via via crescente in quella persona dotata di molto senso pratico e grandi capacità gestionali, che è mia moglie Daniela. Ad entrambi parve anche che l’idea di un movimento femminista federato col Partito Radicale stesse diventando progressivamente più fattibile, specie dopo aver ascoltato e conosciuto Alma Sabatini, che mia moglie definì “una donna piena di buon senso”. E quando il Congresso volse al termine, e si cominciò a raccogliere tra i presenti – maschi e femmine – le adesioni al movimento, mi accorsi che lei ne stava prendendo in considerazione l’idea.

Ciò non poteva che farmi piacere. Alla Rai – ero convinto – le sue capacità erano nettamente sottoutilizzate; e sapevo che un suo impegno politico sarebbe stato utile a lei, e forse anche alla causa delle donne. Ma Daniela non pensava, per impegnarsi politicamente, di poter ridurre il suo carico di lavoro. Ne parlammo così, fittamente, per alcuni minuti, mentre attorno a noi, si alzavano le mani di quelle che decidevano di iscriversi al MLD. Parecchi minuti, forse un po’ troppi. Perché quando Daniela Colombo si decise a levare il braccio, nella sala qualcosa era cambiato. C’erano tre altre braccia alzate, da parte di altre donne, nella platea del Teatro Centrale; donne che facilmente riconoscemmo come quelle che avevano partecipato più attivamente al dibattito. Il che non ci parve strano finché, dalla Presidenza del Congresso, cui la scissione e il volontario allontanamento di Rivolta femminista aveva dato la possibilità di tornare sul palcoscenico, Alma Sabatini disse: “Ci sono in tutto quattro candidature; potremmo fare una Segreteria collettiva”.

Da un battito di ciglia della mia sposa, intuii che anche lei aveva capito quel che mi era subitamente diventato chiaro. Nei minuti che avevamo dedicati a discutere sulla opportunità o meno della sua adesione al Movimento, l’Assemblea era passata dalla raccolta delle domande d’iscrizione a quella delle candidature per i suoi organi dirigenti. E Daniela Colombo aveva così casualmente emulato addirittura Berlinguer, di cui Giancarlo Pajetta una volta aveva maliziosamente detto: “Enrico, giovanissimo, si iscrisse alla Direzione del Pci”.

Non fu una “decisione” completamente sbagliata, anche se – da quel momento – il femminismo militante investì la mia piccola famiglia come una bufera di vento scatenata da un Eolo completamente impazzito. Anzi, l’accoppiata politica dell’MLD col piccolo e battagliero Partito Radicale si rivelò la scelta giusta per la causa delle donne, così come, nel suo piccolo, per la ragazza che avevo sposato. Dopo non molto tempo, Daniela Colombo diventò infatti, e rimase per molti anni, direttrice della rivista femminista “Effe”, oggi – pare – considerata come una sorta di reliquia dell’ascesa della donna nella società italiana.

Poi, quando le parve che in patria le donne cominciassero ad essere riconosciute secondo i loro meriti, e la missione di “Effe” fu collegialmente considerata esaurita, Daniela volse la sua attenzione alle donne del Terzo Mondo, fondando e dirigendo non so più per quanti anni, l’AIDOS, l’Associazione Internazionale Donne per lo Sviluppo: un’iniziativa che ha portato – lei e molte altre donne che potevano dare un contributo di expertise e di conoscenze – a lavorare senza sosta in paesi spesso poverissimi, dove le donne erano sempre al fondo della scala sociale. A viaggiare in zone talora assai pericolose, e in qualche caso in missioni ufficiali, dove a volte sono stato invitato a seguirla come “consorte”.

Oggi, a cinquant’anni esatti dal quel Primo Congresso del MLD di cui, non fosse che per il rilievo che esso ha avuto nella mia vita privata, conservo una memoria vivissima, mi sembra perciò che gli Italiani possano volgere con soddisfazione lo sguardo indietro e trarre un bilancio positivo su ciò cui quella agitata riunione, e le scelte strategiche che vi furono allora fatte, hanno dato avvio nella evoluzione della società italiana. Perché la più grande parità tra i generi che nell’arco di mezzo secolo abbiamo conquistato, costituisce – come appare chiaro nella dolorosa fase di crisi e declino che è cominciata molto prima e rischia di prolungarsi ben oltre la durata della pandemia – un prezioso bene immateriale che nulla ci potrà più togliere.

Giuseppe Sacco

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