La medicina, soprattutto la clinica neurologica, storicamente ha fatto grandi passi avanti osservando e studiando alterazioni funzionali e deficit connessi a determinate patologie. Forse succede la stessa cosa se consideriamo l’umanità nel suo complesso.
Le situazioni estreme – come l’attuale soverchiata dal coronavirus – nella misura in cui mettono alle corde l’ individuo o piuttosto un’intera collettività, ne mostrano più chiaramente potenzialità e limiti. Un primo insegnamento che dovremmo trarre dall’epidemia che ci assedia è o dovrebbe essere la consapevolezza che tutti apparteniamo ad una identica ed univoca “comunità di destino”.
Il virus non rispetta confini e le misure restrittive necessarie a combatterlo nulla hanno a che vedere con le separatezze, le barriere ed i muri invocati dal sovranismo nazionalistico che è stato lungamente incubato anche qui da noi.
Un conto è riflettere, più o meno accademicamente, sulla globalizzazione e sui suoi effetti, tutt’altra cosa tradurre tutto ciò nei termini di un dato esistenziale, di un’esperienza comune e diffusa, palpabile e straordinariamente coinvolgente, concreta, vissuta da ognuno sulla propria pelle.
Dovremmo approfittare del momento per metterci bene in testa, una volta per tutte, che questa appartenenza ad un orizzonte comune è intrascendibile, cioè un dato di fatto che oggi si impone di per sé e da cui non si torna indietro, per cui dovremo tenerla presente anche quando saremo fuori dallo scompiglio che stiamo attraversando. “Comunità di destino”  potrebbe anche teoricamente evocare, in questi frangenti, un che di sinistro e di costrittivo, un vincolo soffocante, ma poichè l’umanità è progredita spesso facendo di necessità virtù, anche questa condizione di difficoltà estrema in cui versiamo potrebbe essere rovesciata in un’ opportunità.
Purché, la coscienza che – come recitava il titolo di un libro di Thomas Merton che in molti della mia generazione abbiamo letto a vent’anni – “nessun uomo è un’isola”, venga assunta come un principio direttivo che sia capace di dar vita ad una convivenza civile adatta alle sfide del momento.
Siamo tutti accomunati da una condizione di fragilità che stride con l’apoteosi della scienza e della tecnica che alimenta una falsa presunzione di onnipotenza che, in fondo, non e’ male che oggi venga revocata in dubbio.
Chiarendo che i nostri destini sono pur sempre affidati a noi ed alla nostra responsabilita’ che non puo’ essere surrogata da nessun automatismo e da nessuna tecnica anonima.
Mai come adesso le pulsioni sovraniste mostrano la corda e si rivelano per quel che sono, reperti fossili di un’epoca defunta che oggi si riaffacciano esibendo toni muscolari, ma in effetti espressione di identità personali e collettive scosse che cercano protezione rinnovando steccati che permettano loro di isolarsi da un ambiente globale vissuto come minaccioso.
“Comunita’ di destino” implica, piuttosto, attivare reti di solidarietà, creare alleanze, coltivare relazioni personali schiette, valorizzare quell’ empatia che ci appartiene al punto da essere inscritta nella nostra stessa struttura biologica, rimettere in campo quei “corpi intermedi” che, in anni recenti, sono stati trascurati e negletti, anzi ritenuti addirittura una pietra d’inciampo per il leaderismo narcisistico, arrogante ed autoreferenziale che ha imperversato prima e dopo le politiche del 4 marzo.
Da queste reti dipende la capacità di resilienza del Paese, l’attitudine a sopportare una avversità in modo razionale, senza cedere a suggestioni psicologiche di massa fuorvianti.
Siamo fragili e questo a maggior ragione è vero a fronte di una complessità che sfugge alla catene lineari di causa-effetto che siamo capaci di padroneggiare e ci spinge in braccio a processi non predicibili che creano una precarietà, a tratti, perfino angosciante.
Domenico Galbiati

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