Come è stato accolto dagli italiani l’ultimo messaggio televisivo del Presidente del Consiglio?
Un osservatorio indipendente come Politica insieme non può non registrare alcuni elementi:
- la crescente preoccupazione che serpeggia in comparti economici quali il commercio al dettaglio, l’artigianato, le professioni, la piccola impresa, o in settori produttivi (in primis agricoltura e turismo con tutto il suo indotto): centinaia di migliaia di attività che cominciano a considerare concretamente l’ipotesi di non tentare neanche la riapertura; milioni di famiglie che cominciano a toccare con mano una condizione di forte incertezza. Pare che il discorso di domenica sera abbia accresciuto (e non di poco) tali preoccupazioni;
- un certo senso di onnipotenza che sembra caratterizzare ormai la comunicazione di colui che si sta affermando quasi come il rappresentante unico dello Stato, figura a cui i cittadini italiani sono non solo disabituati, ma decisamente refrattari. Ezio Mauro spiegava alcuni giorni fa su Repubblica gli abusi d’autorità da coronavirus in vari paesi del mondo (dal Brasile all’Ungheria alla Polonia). Se il Presidente Conte non farà nei prossimi giorni qualcosa di molto efficace per allontanare da sé il sospetto di voler utilizzare l’emergenza per consolidare il proprio potere personale, la situazione potrebbe ulteriormente mutare a breve e una forte instabilità politica potrebbe sommarsi ad un quadro generale già complesso.
Ma per provare a cogliere gli effetti dell’ultimo discorso agli italiani del Presidente del Consiglio è forse necessario interpretare lo stato generale emotivo del Paese. La condizione morale collettiva su cui il discorso è planato.
L’impressione è che alla prevalente angoscia per la situazione sanitaria sia subentrato – con il contenimento del contagio epidemico – uno stato emotivo di tipo nuovo. Qualcosa di più di una semplice preoccupazione per la difficile situazione economica che dovremo fronteggiare a breve. Qualcosa di più di uno sgomento per le astronomiche cifre del debito pubblico che va formandosi (che impensieriscono seriamente la massa dei percettori di stipendi pubblici e pensioni). E anche qualcosa di più di un giustificato scetticismo sulla possibilità che una mossa risolutiva dell’Europa possa evitarci le esperienze durissime che ci attendono.
C’è tutto questo, è vero, ma c’è un elemento in più – o meglio, un gravissimo rischio – che per me si riassume nella parola “passività”.
Per definire quello che mi sembra il segno di questo stato d’animo di sospensione – e i rischi di cui è gravido – può essere utile tornare con la mente alle recenti commemorazioni del centenario di Caporetto che ci hanno ridato il senso più profondo di quell’episodio della nostra storia.
Caporetto non fu una disastrosa sconfitta militare, né fu espressione di un disfattismo o antimilitarismo sotterranei, né tanto meno un episodio rivoluzionario rimasto allo stato di conato. Esso rappresentò piuttosto una straordinaria, enorme, inattesa crisi collettiva di passività.
Caporetto non può essere letto nel quadro della storia militare o politica del Paese, ma richiede si essere interpretato come vero e proprio momento identitario della nazione.
Ebbene, anche le mirabolanti cifre della prossima manovra di bilancio, che praticamente dopo 30 anni torna a non aver più alcun vincolo esterno, associate alla totale assenza di ogni dialettica politica e alla sostanziale indifferenza da parte dei cittadini (per non parlare della stampa) ci parlano di una situazione che rifiuta i canoni interpretativi tradizionali. Siamo di fronte ad una situazione nuova. Nuova non sul piano politico o economico, ma sul piano identitario.
Che paese saremo diventati dopo che uno spostamento di risorse economiche di tali dimensioni (con effetti non solo sulla vita di milioni di persone, ma su quella delle generazioni future), e quindi un conseguente spostamento di potere sociale ed economico, si sarà consumato in una sorta di silenzio trasognato quale quello che stiamo vivendo ormai da due mesi? E che si prolungherà, a quanto pare, per almeno un altro mese e oltre?
A me sembra che l’Italia del corona virus rischi oggi di assomigliare moltissimo a quella dell’autunno 1917: un paese stanco, prostrato (allora da due anni e mezzo di guerra, oggi da una crisi economica ininterrotta che dura da dodici anni) che a un certo punto trova psicologicamente riparo in una gigantesca fuga dalle proprie responsabilità. Una umanissima, tragica “vacanza”, degna della commossa partecipazione di noi che oggi ci rivolgiamo con la dovuta pietas a quell’episodio della nostra storia, ma anche a quel carattere della nostra identità.
E se i più sensibili – artisti come Comisso e Bacchelli – colsero addirittura il sapore di “festa” di quelle giornate dell’ottobre 1917, come facciamo noi oggi a non registrare – ad esempio – quel fiorire (davvero festoso) di creatività e di sarcasmo nel mondo dei social che sta caratterizzando questi mesi?
E se la festa ha un netto segno di amarezza (e come potrebbe non averlo?) ciò che dobbiamo registrare con allarme è l’atmosfera quasi onirica che circonda le cifre inaudite che scorrono davanti ai nostri occhi.
Ecco, è in questo clima che dobbiamo collocare il più recente discorso agli italiani del Presidente del Consiglio Conte. Un discorso che definirei in bilico fra stato di necessità e stato trasognato.
Quanto durerà questo difficile equilibrio, su cui sembrava l’altra sera reggersi il messaggio presidenziale?
Cercare di interpretare politicamente tale situazione è estremamente complesso poiché entrano in gioco un numero enorme di fattori: economici, politici, culturali, identitari.
Certamente si tratta di un equilibrio di una precarietà estrema quello su cui sembrano puntare il Presidente Conte e la sua maggioranza.
Quanto tempo ancora potranno avere corso le banalità sulla digitalizzazione del Paese come chiave risolutiva della crisi o quelle sulla semplificazione amministrativa?
Cosa arriverà prima: la digitalizzazione o la chiusura di centinaia di migliaia di imprese? Oppure arriverà prima la presa di coscienza che non può esserci alcuna digitalizzazione messianica senza infrastruttura di base (rete in fibra ottica) e alfabetizzazione informatica?
Cosa arriverà prima: la semplificazione amministrativa o un’ondata di scioperi generali, o un innalzamento improvviso dello spread? Ma c’è anche l’ipotesi che ad arrivare prima sia la presa di coscienza (scoraggiante) che non può darsi vera semplificazione amministrativa senza profonda revisione della organizzazione della PA, se non senza addirittura previa riforma della giustizia.
Quale sarà la successione temporale fra deprezzamento drammatico del patrimonio immobiliare e primi vagiti di un neonato (tutto di là da venire) Ministero (con relativo Ministro) delle Infrastrutture, motore necessario di ogni ipotesi di piano keynesiano di lavori pubblici?
E’ molto difficile rispondere a queste domande. E in ogni caso occorre sempre vedere la realtà in termini dialettici: dopo Caporetto arrivarono, infatti, la battaglia del solstizio e Vittorio Veneto. E la vera Caporetto – alla fine – fu quella degli austro-ungarici.
Tuttavia, una cosa appare certa: per mettere fine al più presto a questo pericoloso clima di passività, una ripresa di iniziativa dell’opposizione – propositiva ed energica – sarebbe oggi auspicabile quanto lo sarebbe un’azione di governo più puntuale e responsabile.
Non è un caso che – pure nel clima trasognato in cui viviamo – l’offerta politica sia entrata in una fase accelerata di rimescolamento. Per ora sotterraneo ma sappiamo che la politica ha il brutto vizio di virare all’improvviso.
Un osservatorio indipendente come Politica Insieme non può limitarsi ad “osservare” lo svolgimento di questa complicata matassa poiché l’osservazione è un lusso che in questi tempi ben pochi possono permettersi.
Enrico Seta