Il coronavirus ha attraversato enormi distanze, raggiungendo Milano da Wuhan, ma è arrivato con molta
meno violenza e intensità nel Centro-Sud nonostante gli intensi flussi di movimento tra persone che legano
le diverse parti della penisola.

Per offrire un contributo alla spiegazione il puzzle e stimolare ulteriore
ricerca in questa direzione il working paper in progress di Leonardo Becchetti (Univ. Tor Vergata), Gianluigi
Conzo (Univ. Tor Vergata), Pierluigi Conzo (Univ. Torino & Collegio Carlo Alberto) e Francesco Salustri
(Oxford Univ.) usa dati giornalieri provinciali su contagi e decessi analizzando il ruolo di quattro fattori
principali (lockdown, inquinamento, anzianità, clima e frequenza locale di incontri tra persone) sulla diversa
diffusione della COVID-19 tra le regioni italiane.

I risultati del lavoro suggeriscono che la COVID-19 abbia trovato terreno fertile in presenza di bassa qualità
dell’aria (intensità di polveri sottili) e mancato distanziamento sociale prima delle decisioni di lockdown,
che incidono significativamente sulla riduzione del numero dei casi.

Gli effetti dell’epidemia sono purtroppo maggiori anche nelle provincie a maggiore presenza di microimprese e imprese artigiane, presumibilmente per la maggiore resistenza delle stesse ad interrompere l’attività vista la maggiore fragilità e il maggior rischio di conseguenze negative in caso di blocco dell’attività economica. La variabile
cattura di fatto anche le aree a maggiore attività economica e percentuale di attività manifatturiera più
difficile da convertire in smart work.

Il dato sulle microimprese, drammatico e oggettivo, non vuole avere nessuna connotazione negativa. Gli artigiani e i piccoli imprenditori che lottano per difendere la propria impresa sono eroi come i medici e gli infermieri e, in quanto tali, necessitano di altrettanta tutela. Il lavoro verifica infine se la presenza di stranieri cinesi residenti nella provincia abbia avuto qualche impatto nella diffusione del contagio, non trovando alcun riscontro empirico a questa ipotesi.

I dati mostrano in particolare che l’esposizione passata prolungata nel tempo alle polveri sottili incide significativamente sul numero di decessi e di contagi registrati. Questo risultato è coerente quello trovato da altri ricercatori di Harvard sull’effetto della COVID-19 negli Stati Uniti e con quanto rilevato in numerosi lavori della
letteratura medica di cui la ricerca tiene conto, che indicano una significativa correlazione tra esposizione
alle polveri sottili e ospedalizzazioni di emergenza per polmoniti in tempi non sospetti (prima
dell’epidemia COVID-19). Per provincie collocate ai due estremi (per le Pm2.5, quelle lombarde e della
Sardegna) questa differenza arriva a circa 1200 casi e 600 morti in un mese, considerando la popolazione
media, raddoppiando all’incirca il rischio di mortalità tra le due aree (sotto ragionevoli ipotesi sul numero
totale dei contagiati e sul tasso di letalità del virus).

Ulteriori analisi saranno necessarie per trovare conferma che tutte queste evidenze indichino la presenza di
nessi causali inequivocabili. Se interpretiamo i risultati come tali, e li mettiamo assieme ai tanti contributi
sulla nocività delle polveri sottili, le implicazioni di policy sono evidenti. Il 94% delle polveri sottili dipende
da fattori sotto il nostro controllo: più della metà (il 57% circa) dal riscaldamento domestico, e per il
restante 37% da trasporti, energia e produzione agricola e industriale. È urgente dunque ripartire mettendo
al centro l’idea di “benessere resiliente”.

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