L’ articolo 2 della costituzione sancisce il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo… chiaro e lampante
Né, tanto meno, esiste un “diritto alla morte”. Lo affermano concordemente la nostra Carta Costituzionale e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
“Dall’art. 2 della Costituzione – non diversamente che dall’art. 2 CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto al suicidio”. Lo dice espressamente la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale che rende note le motivazioni del giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice Penale, pronunciato lo scorso 25 settembre.
La Corte ha, dunque, escluso che “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa rilevarsi di per sé incompatibile con la Costituzione: essa di giustifica, infatti, in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più’ deboli e vulnerabili.”
Peraltro, continua la suddetta sentenza: “Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio”(sentenza del 29 aprile 2002).
La Corte individua si’ “una circoscritta area di non conformità costituzionale” in merito alla punibilità dell’aiuto al suicidio, così come disposto dall’art. 580 del Codice Penale, ma è attenta a definirne i limiti e la procedibilità. Cosicché, solo una lettura volutamente tendenziosa e forzosa della sentenza, ne può far derivare – come vorrebbero ambienti notoriamente ed ideologicamente preconcetti – un “via libera” o addirittura una sorta di sollecitazione al Parlamento – peraltro autonomo e sovrano nell’ordine delle sue funzioni – ad introdurre una legislazione eutanasica nel nostro ordinamento.
Insomma, non c’è motivo perché si pensi, ad esempio, in sede parlamentare ad un ampliamento dei casi di non punibilità, non a caso puntualmente definiti e circoscritti dalla Corte.
Se dal suo pronunciamento volessimo trarre una sorta di prescrizione al Parlamento di un possibile indirizzo legislativo dovrebbe essere, a questo punto, nel senso di una cautela, anzi di un limite rigoroso da osservare, piuttosto che, come alcuni vantano, nel segno di un avanzamento verso la legittimazione dell’eutanasia.
Se mai, i frequenti rimandi che la sentenza propone alla legge 209/2017 suggerirebbero l’opportunità di una attenta riconsiderazione di questo provvedimento, in particolare per alcuni aspetti che, per parte nostra, non abbiamo condiviso, soprattutto in ordine a  idratazione e nutrizione, valutati come provvedimenti di carattere sanitario, piuttosto che semplici atti di sostegno vitale.
Infatti, i casi di aiuto al suicidio non punibili vengono ricondotti entro la fattispecie dell’autodeterminazione ad interrompere ogni sostegno vitale già contemplata dalla legge 209/2017. Ad ogni modo, escludendo comunque ogni intervento “attivo”‘diretto a procurare la morte.
La Corte si preoccupa, altresì, che venga scongiurato “il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda…..in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010”.
Infatti, afferma ancora: “Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”. Ricorda anche il parere reso nel luglio 2019 dal “Comitato nazionale per la bioetica” in ordine alle cure palliative ed alla terapia del dolore come “priorità assoluta per le politiche della sanità’”. Del resto, riconosce la Corte: “…l’accesso alle cure palliative, ove idonee ad eliminare la sofferenza, spesso si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”.
In quanto al medico cui ovviamente non è consentito porre in atto “trattamenti diretti, non già ad eliminare le sofferenze, ma a determinare la morte”, la Corte apre, sia pure indirettamente al riconoscimento dell’ obiezione di coscienza, precisando che la “declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”.
Dunque, da un esame attento del pronunciamento della Corte si evincono sì indicazioni rilevanti di cui la politica deve sapersi far carico, ma ben altrimenti che adeguandosi, anzi subendo, una logica eutanasica distruttiva.
La nostra ferma opposizione a ogni deriva di tal genere è nota e non ha bisogno di essere ribadita.
Rileviamo, piuttosto, come, nel segno del rispetto pieno della vita e della dignità integrale della persona, vi siano ampi spazi di riflessione comune e di collaborazione tra credenti e non credenti. Cominciando da politiche sanitarie che – afferma la Corte – in ordine alle cure palliative, rappresentano addirittura un “impegno” già contratto dallo Stato.
A tale lavoro comune intendiamo concorrere recandovi il contributo schietto ed aperto della visione cristiana che ci ispira.
Domenico Galbiati

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