Quando era immediatamente più facile rifarsi al “popolo” piuttosto che, come avviene oggi, alla “gente”, la nozione di “partito programmatico” risultava più chiara.

Per “gente” intendiamo un agglomerato sostanzialmente sgranato ed informe – e, quindi, inerte – povero di connessioni interne e di relazioni di reciprocità che, di per sé, già mettano in evidenza quelle istanze comuni che, a loro volta, evocano le possibili risposte. Il popolo, al contrario, è un soggetto vivo ed attivo e come tale ha voce sufficiente a dire sé stesso, cosicché, in un certo senso, precede la progettualità politica o, meglio, la incardina dentro una cornice tematica che ne facilita la declinazione.

Nel “popolo” c’è la sostanza di interessi veri, che impegnano la vita di tutti i giorni, le conferiscono una motivazione, accendono una passione, le danno una prospettiva ed un senso, la collocano dentro un orizzonte comune, cosicché, per quanto appartengano alla particolarità di ciascuno, sono di per sé orientati a giustificarsi reciprocamente nel quadro di un interesse generale. E quest’ultimo è la materia grezza che già allude al “bene comune” che pur deve esserne scolpito fuori.

Il “programma” spesso, quanto più si mostra ampio e dettagliato, tanto più rischia di ridursi ad una elencazione di cose da fare che, se non sono riconducibili ad uno sfondo originario comune, si squadernano in una pluralità di elementi affastellati senza una finalizzazione chiara e comprensibile.

Succede, altresì, che talvolta il programma ceda alla suggestione di una appetibilità mediatica che ne può curvare l’indirizzo in funzione di un impatto più diretto ed efficace in termini di consenso atteso, sia pure, se del caso, a scapito della necessaria coerenza interna. Per questo è necessario, al tempo stesso precedere il programma, per un verso, e superarlo, andare oltre, per altro verso.

“Precederlo” significa fondarlo sull’idea generale di un progetto, il quale, a sua volta, declini, nel contesto storico del momento – dando luogo a quella che comunemente i più ispirati chiamano “visione” – la concezione dell’uomo e della vita in cui quella determinata forza esprime, per parte sua, i valori in cui crede, cioè le ragioni vere, autentiche per cui vale la pena di vivere e talvolta addirittura di morire.

Quella che chiamiamo “partecipazione democratica” o avviene qui, ad un livello profondo di condivisione di principi, valori e criteri di giudizio fondanti un complessivo orizzonte di senso oppure si riduce a poco o nulla, se consiste nel dire la propria, saltando da un argomento all’altro, in maniera disgregata ed occasionale per temi ed argomenti differenti e separati, come succederebbe in una presunta democrazia” referendaria”.

Apparentemente “programmatica”. La quale altro non è o non sarebbe che un surrogato banale ed ingannevole di una partecipazione che deve, al contrario, concernere il ceppo ideale originario da cui la varietà delle proposte che vengono avanzate assume la sua linfa.

E’ vero che siamo in una società cosiddetta liquida, ma non è una buona ragione perché la politica debba, a sua volta, liquefarsi.

E’ vero che i cultori del “pensiero debole” ci avvertono che il tempo post-moderno non può essere pensato secondo gli stilemi di una razionalità metallica e totalizzante che ci restituisca un’ immagine rigorosamente organica del contesto civile, ma è altrettanto vero che non possiamo accettare che tutto si risolva nella pluralità pulviscolare di questioni che nessuna sappia ricondurre ad una lettura aggregata e di qualche sintesi, almeno parziale.

Al contrario, andare oltre il programma, significa sapere che nessun programma è mai esaustivo ed anzi esige una attenzione critica costante che sappia scorgere come da ogni risposta che il programma fornisce nasca una o forse almeno due domande nuove.

Ne consegue che è vero quando ha in sé un dinamismo tale per cui produce a valle effetti che, risalendo a monte, ne rielaborano gli assunti da cui ha preso le mosse.

In questo senso è illusorio – e sbagliato – ritenere che l’ accordo programmatico basti a fondare un’intesa che abbia la sostanza di una “alleanza”, dato che come tale si deve intendere un rapporto che abbia almeno un carattere di sintonica condivisione non di temi particolari e contingenti, bensì di fattori valoriali, se non comuni, il buon e significativa misura coincidenti.

Domenico Galbiati

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