Il made in Italy è diventato un boccone particolarmente appetibile e a prezzi scontati, soprattutto per le aziende quotate, che in questi anni di crisi hanno visto precipitare la loro capitalizzazione.

L’aspetto più preoccupante è quello di alcune Pmi che guardano ormai solo all’estero per le loro esigenze di liquidità, cui il sistema bancario italiano non fa fronte da anni.

La situazione è diventata talmente preoccupante che i Servizi segreti avevano già lanciato l’allarme anche nella relazione annuale trasmessa il 31 gennaio 2018 al Parlamento italiano dal Copasir (Comitato Parlamentare per la sicurezza pubblica), secondo il quale gruppi esteri mirano ad acquistare “patrimoni industriali, tecnologici e scientifici nazionali”, nonché “marchi storici”.

In particolare “sono sempre maggiori – veniva sottolineato – le minacce al sistema Paese nella sua dimensione economico-finanziaria, innescate in primo luogo dai processi di globalizzazione e di evoluzione tecnologica, soprattutto nel campo delle comunicazioni, e da un sistema internazionale multipolare, nel quale gli alleati sono nel contempo concorrenti in un’aspra competizione che si combatte nell’arena dell’economia, dagli assetti societari e bancari al mondo delle imprese… per cui anche industrie strategiche e piccole e medie imprese… rischiano di essere seriamente compromessi”.

Del resto anche in una precedente relazione fin dal 2012 “l’attività informativa confermava il perdurante interesse da parte di attori esteri nei confronti del comparto produttivo nazionale, specialmente delle Piccole e medie imprese (Pmi), colpito dal prolungato stato di crisi che ha sensibilmente ridotto tanto lo spazio di accesso al credito quanto i margini di redditività”. L’attenzione dell’intelligence – si leggeva nella relazione – si è prevalentemente appuntata sulla natura dei singoli investimenti, per verificare se gli stessi siano dettati da meri intenti speculativi o da strategie di sottrazione di know-how e di svuotamento tecnologico delle imprese, con effetti depressivi sul tessuto produttivo e sui livelli occupazionali.

“Alcune manovre di acquisizione effettuate da gruppi stranieri se, da una parte, fanno registrare vantaggi immediati attraverso l’iniezione di capitali freschi, dall’altra sono apportatrici nel medio periodo di criticità. Ciò in dipendenza del rischio di sostituzione, con operatori di riferimento, delle aziende italiane attive nell’indotto industriale interessato dall’investimento diretto ovvero proprietarie di tecnologie di nicchia, impiegate nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza nazionali, come pure nella gestione di infrastrutture critiche del Paese”.

“In tal contesto – continuavano i nostri Servizi segreti – le evidenze raccolte hanno posto all’attenzione quelle strategie d’investimento estero che, finalizzate al controllo di talune imprese nazionali attive nel settore manifatturiero, si sono tradotte nell’acquisizione di marchi e brevetti, nell’accaparramento di quote di mercato e, in un’ottica di contrazione dei costi, nella delocalizzazione dei siti produttivi ovvero nel trasferimento oltreconfine dei centri decisionali»…«È andato consolidandosi, inoltre l’interesse straniero nel settore delle energie rinnovabili, della logistica aeroportuale, del turismo, dell’agroalimentare, dell’innovazione tecnologica e del tessile”.

“Secondo le indicazioni raccolte – concludeva l’intelligence – la presenza asiatica si sta ulteriormente sviluppando in settori emergenti, come il fotovoltaico, e di rilievo strategico, quali le telecomunicazioni e le infrastrutture logistiche, mentre Paesi del Golfo Persico appaiono interessati ad aziende nazionali operanti principalmente nei campi del turismo, dell’immobiliare e del lusso”.

A questi segnali che provenivano dagli apparati investigativi dello Stato si aggiungevano le rilevazioni della società di revisione Kpmg che riferiva dell’acquisto di imprese italiane da aziende estere per importi di oltre 65 miliardi, in particolare gli Usa e la Francia, ma anche da parte di Cina, Germania, Turchia e Paesi arabi.

Di fronte a questo scenario drammatico il governo Monti aveva deciso di proteggere le società strategiche dalle scalate ostili straniere, riformando le norme sui poteri speciali di intervento attribuite all’esecutivo con la cosiddetta “golden share” da esercitarsi non solo sulle aziende pubbliche, ma anche su quelle private che operano in settori riconosciuti come strategici e di interesse per l’economia nazionale.

Tutte le maggiori potenze industriali hanno posto limiti alla presenza straniera in settori strategici ed anche noi lo facemmo nel 1994 con la legge sulle privatizzazioni di cui fu relatore chi scrive. Ma quella normativa evidentemente non bastava.

Tanto che il governo Letta fu costretto a ritornare sull’argomento con nuove disposizioni, per contrastare l’offensiva nei confronti del nostro Paese che da allora viene attaccato da una vera e propria “campagna” per la conquista del nostro apparato produttivo. Fu emanato il Decreto del Presidente del Consiglio (Dpcm) con il regolamento che includeva la rete fissa di Telecom tra gli “attivi di rilevanza strategica nel settore delle comunicazioni” sui quali il governo ha i poteri speciali, per l’attuazione della legge sul golden power (il Dpcm 30 novembre 2012, numero 253, “recante individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale”).

Ma evidentemente nemmeno quegli ulteriori provvedimenti si rilevarono adeguati ad impedire l’assalto alle nostre aziende, per cui il governo Conte dimissionario con apposito decreto legge pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’11 luglio 2019 andava a modificare il primo provvedimento che regola l’esercizio dei poteri speciali da parte del governo (Dl 21 del 2012 – Monti). In particolare, il decreto di luglio estendeva, da 15 a 45 giorni dopo la notifica, il tempo entro cui il governo è tenuto a comunicare l’eventuale veto o le prescrizioni. I tempi per il decreto sarebbero scaduti il 9 settembre, per cui il nuovo Governo Conte, quello giallorosso per intenderci, ha stretto con Dpcm (decreto della presidenza del Consiglio) ulteriormente i vincoli sopratutto per quanto riguarda le reti 5G e le operazioni collegate a soggetti extra europei.

E appena insediato il Conte 2, in sede di primo Consiglio dei ministri, ha esercitato questi poteri speciali – la cosiddetta “golden power” – nei confronti delle società che stanno realizzando le reti 5G: Tim, Vodafone, Wind, Tre, Fastweb e Linken. Anche l’Italia, dunque, che vede in questa fase subire la globalizzazione più che cavalcarla, con poche aziende in grado di aggregare e con un sistema-Paese che scoraggia con fisco, burocrazia e giustizia, cerca di correre ai ripari per tutelare il proprio apparato industriale.

Riccardo Pedrizzi

Pubblicato su Formiche.net il 23 gennaio 2020

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