In un certo senso si può dire come la politica sia fatta per tutti, ma non tutti siano fatti per la politica.
E forse bisogna tenerne conto per disegnare la fisionomia di un partito che non sia la ripetizione pedissequa di quelli che abbiamo conosciuto nel secolo scorso.
Quando approdai alla DC, a metà degli anni ‘60, chiesi chi fossero esattamente i cosiddetti “simpatizzanti” che allora rappresentavano una categoria, in qualche modo, considerata non organica, ma comunque rilevante per l’insediamento territoriale del partito.
Mi spiegarono che tali si potevano considerare gli elettori in senso lato, in particolare quelli che si dichiarassero o comunque si rendessero riconoscibili; in termini più stringenti, coloro che di fatto concorrevano, in vario modo – dall’intellettuale al volontario che aiutava ad attaccare i manifesti nelle campagne elettorali – al nostro impegno politico, pur non ritenendo di compiere una scelta di “militanza”, iscrivendosi formalmente al partito.
Questa dinamica tra partito ed “esterni” ha accompagnato un po’ tutto l’arco temporale della vita della Democrazia Cristiana.
Nell’ assemblea dell’ 81, non a caso, è stata messa a tema – Moro era scomparso da tre anni e l’età del declino muoveva i suoi primi ineludibili passi – nei termini di un necessario ed organico raccordo tra il nostro mondo culturale ed il partito che avvertiva la necessità di quell’ essere “alternativi a noi stessi” che Moro aveva più volte invocato, ma la sua stessa morte concorreva a rendere, ad un tempo, urgente eppure cosi’ difficile, impraticabile.
Non si trattava di un banale affiancamento, insomma di “consociativismo” con ambienti culturalmente vicini, bensì della ricerca di una interazione più profonda che ricreasse un rapporto biunivoco tale per cui il partito potesse acquisire dalla società civile la linfa di una sensibilità smarrita nei confronti dell’evoluzione sociale in atto e, ad un tempo, le restituisse una ricomposizione sensata delle nuove tendenze e degli interessi in gioco, nelle forme di una sintesi propriamente “politica” ed operativamente efficace.
Le cose sono andate come sappiamo, eppure il tema della fisionomia di un partito adatto ai tempi nuovi che fin da allora si intuivano, era stato avvertito correttamente e si pone, a maggio ragione, tuttora.
Oggi la situazione è anche più complessa.
Sono venuti meno i corpi intermedi e quei nuclei di aggregazione che consentivano di strutturare una coesione sociale in buona misura smarrita, quel linguaggio comune, quelle attese ed aspirazioni condivise che danno forma ad una dimensione “popolare”, capace, a sua volta, di offrire alla politica i materiali essenziali per la costruzione di un progetto.
La politica ha, dunque, oggi un compito più difficile; deve risalire più a monte e prendere da lì le mosse se vuole intercettare la domanda sociale nella sua consistenza effettiva, alla fonte, prima che di sfrangi in un pulviscolo disordinato di interessi minuti e contraddittori, per di più’ urlati in modo stentoreo, senza alcuna inclinazione ad individuare un interesse generale da condividere.
In definitiva, questa relazione costitutiva tra “cultura” e “politica”, per dirla in modo sbrigativo, se vogliamo pensare ad una forza politica organizzata in maniera innovativa, va risolta a monte, in termini strutturali, anziché trascinarcela appresso in modo sempre incerto ed approssimativo.
Abbiamo, quindi, bisogno di una cosa appena più’ complessa, di due momenti coordinati e reciprocamente funzionali: un luogo – una Fondazione, una Associazione; per molti aspetti, mi pare, quella che Dellai chiama una “Comunità Politica Popolare” – che sia lo spazio dedicato alla produzione di un ” pensiero politico” aggiornato e forte, aperto a tutti coloro che intendono concorrervi e “fare politica”, senza assumere l’onere della “militanza”, riservata – e qui sta il “partito” – a chi intende compiere questa scelta, nella piena consapevolezza che non si tratta di una sine-cura, ma, in definitiva, di una determinazione che va rivalutata, comprendendo come abbia un profilo che non è esagerato chiamare “ esistenziale”, tale, cioè, da intrattenere un rapporto non episodico ed aleatorio, ma sostanziale con il progetto di vita di chi si orienta in tale senso.
In questa ottica, non tutti sono fatti per la politica, ma la politica è fatta per tutti ed è, dunque, importante che vi sia un luogo cui vi si possa concorrere, modulando il proprio impegno, senza necessariamente arruolarsi in quella “testa di ponte” esposta al fuoco nemico ( e talvolta pure a quello amico) rappresentata dal partito.
Aderire ad un partito non è cosa facile e scontata, almeno se si intende cosa davvero significhi.
Anche chi fa cultura si compromette assumendo posizioni anche scomode ed impopolari, ma mantiene pur sempre se stesso, il proprio pensiero, anche le evoluzioni di quest’ultimo, come inappellabile riferimento interiore, assolutamente personale.
Chi aderisce ad un partito, fa tutto questo ed in più ci aggiunge la disponibilità, anzitutto, a mettere in gioco quella che, per stare al linguaggio dei nostri giorni, chiamerei la propria “sovranità critica”, cioé, senza rinunciare alla propria coerenza intellettuale, in qualche misura la conferisce ad un piu’ vasto aggregato, accettando a monte, salvo il caso di coscienza, di assumere quegli impegni d’azione che vengono concordemente stabiliti, anche al di là della propria esclusiva e personale propensione.
Non è cosa di poco conto e merita di essere considerata con il dovuto rispetto.
Domenico Galbiati

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