L’attuale crisi del mondo del lavoro è di tipo strutturale, e pesa in grandissima parte sulle spalle dei lavoratori. Le cause di questa crisi vanno ricercate, fin dal lontano 2007, principalmente nei comportamenti e negli interessi dei protagonisti della Finanza, che operano nei mercati globali. Le loro azioni parrebbero giustificate dalla cosiddetta tutela dell’interesse superiore del mercato, ma in realtà la vera logica comportamentale è quella del massimo profitto. Da tempo, il Capitale ha scelto di scendere in politica, utilizzando i mercati globali per mettere in crisi il movimento sindacale e favorire la crescita delle disuguaglianze sociali.
Lo riconosce anche il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, in “ Campo di battaglia”: il sistema produttivo consente che numerosi dipendenti lavorino senza orario, abbiano entrate discontinue, e non godano di protezioni sanitarie . Vivono nella totale irregolarità. È una categoria che esula da ogni parametro salariale ; che annaspa in una povertà dilagante: sono un esercito di lavoratori disposti ad accettare qualsiasi compromesso, pur di avere delle entrate capaci di allontanare l’incubo della povertà.
È l’aspetto peggiore del Capitale, che usa le leggi del mercato per annullare lo Stato sociale e salvaguardare , a tutti i costi , la massimizzazione del profitto. La denuncia di Molinari da’ forza alla tesi che il neoliberismo, nel quale il capitale si riconosce, mira a modellare la società in modo da trarre il maggior lucro, senza curarsi degli effetti socio-economici. Prevale, cioè, l’avidità e il rifiuto di ogni responsabilità sociale.
La debolezza dei lavoratori non è attenuata dagli effetti delle tecnologie sul sistema della produzione. Queste hanno, infatti, modificato radicalmente l’organizzazione del lavoro, tanto profondamente da esaurire il ciclo della fabbrica fordista. I lavori ripetitivi vengono, così, penalizzati in quanto sostituiti dalle macchine intelligenti . Si ha, cioè, l’espulsione di lavoratori che vanno ad incrementare l’esercito dei lavoratori “disperati” di cui sopra .Il digitale nella produzione, al tempo stesso, genera, invece, una domanda di lavoratori altamente qualificati, di cui , purtroppo, è carente l’offerta.
Da qui, la debolezza del mondo del lavoro che si presenta frammentato, incerto nell’affrontare i problemi occupazionali propri di una fabbrica internazionalmente disaggregata in molteplici filiere tecnologiche, fragile nel fronteggiare la logica anglosassone dei profitti a breve termine secondo le regole speculative dei mercati finanziari.
Che cosa fare in questo contesto? Quali possono essere le linee guida di una politica industriale?
Un fronte d’azione è , senz’altro, quello del rinnovamento del capitale in Italia, nella logica di uno sviluppo di capacità imprenditoriali che siano competitive a livello globale, anche mediante la realizzazione di filiere tecnologiche internazionali. Per primi sono i mercati a richiedere un imprenditore che sappia investire soprattutto in uomini , che sia portatore di una cultura favorevole alla transizione digitale e ambientale.
Per fare ciò, è necessaria una diffusa capacità di gestire un’impresa non più standardizzata, che presenta una gestione non più facilmente prevedibile perché non sono più elaborabili scenari sia a breve che a medio termine, con un margine di errore ridotto , come era fattibile nella fabbrica tradizionale caratterizzata dalla rigidità della sua catena di montaggio e dall’ affidabilità delle sue economie di scala. Oggi, le parole d’ordine del nuovo mondo della produzione sono elasticità, flessibilità, disaggregazione in progetti. Tutto ciò, propone un nuovo ruolo delle università, dei centri di ricerca e degli istituti tecnologici all’interno del sistema produttivo. È loro il compito di formare un’area di distretti territoriali dell’innovazione tecnologica finalizzati a realizzare programmi strategici di ricerca.
Va osservato che, finora, l’ assenza di chiari indirizzi di sviluppo nella ricerca ha condotto ad una parcellizzazione delle relative attività, prive di vincoli tematici e scollegate tra loro, con risultati di scarso rilievo. La risposta a questo stato di cose è un radicale cambiamento nella programmazione dell’attività di ricerca, in primis nelle Università.
In altri termini, le elevate risorse finanziarie erogate per pagare l’attività svolta da parte dei docenti universitari non danno i frutti che la società richiede, perché l’attività non è coerente con le linee di politica industriale definite dal Governo , specificatamente con i vincoli tematici prioritari per il raggiungimento del Bene Comune.
Per cui andrebbe fatto il piano nazionale per l’innovazione, che dovrebbe contenere solo gli elementi essenziali vincolanti, coerentemente con le missioni del Pnnr. Tuttavia, l’accentramento governativo va bilanciato con il decentramento dell’attività operativa nei distretti territoriali formati, appunto, dalle università ,dai centri di ricerca , dagli istituti tecnologici e dalle imprese, in coerenza con il piano nazionale.
Tale proposta avrebbe il pregio di indirizzare un elevato flusso di risorse finanziarie a favore di una integrazione virtuosa della ricerca pubblica con il sistema delle imprese e con i soggetti della ricerca privata ;creando un sistema che potrebbe essere l’interfaccia per lo scambio , molto utile, di know how tra i vari ambiti tecnologici.
Il modello indicato potrebbe essere applicato anche per l’elaborazione e la diffusione di progetti formativi nel mondo del lavoro e nella imprenditoria per la formazione di una coscienza solidale.
Il secondo fronte della proposta di politica industriale, infatti, è quello prioritario della formazione dei lavoratori, soprattutto come persone, perché la formazione è un diritto fondamentale. La politica di investimento nel capitale umano deve riguardare tutti i livelli dell’ attività formativa ed essere permanente, con una particolare attenzione alla formazione dei lavoratori nel campo dei servizi , pubblici e privati. A questo fine, si dovrebbero prevedere interventi ben calibrati al soddisfacimento , variabile da zona a zona, della domanda di professionalità tecnologicamente avanzate.
Da qui, la forte necessità di integrare la formazione professionale con l’educazione, indispensabile perché si formi quella coscienza che permei il sistema produttivo di sensibilità alle istanze socio-culturali. Al lavoratore , infatti, non basta un’assistenza “minima”. La richiesta è un innovativo compromesso tra l’accumulazione del Capitale e la redistribuzione della ricchezza.
Viene con ciò messo in discussione il concetto che il profitto sia l’unico criterio di gestione dell’impresa economica. In altri termini, come scrive il Cardinale Carlo Maria Martini in “ Giustizia, etica e politica nella città”( ed Bompiani), la razionalità economica, compreso il profitto, deve essere collocata all’interno della più ampia razionalità etica.
Roberto Pertile