“Noi, perché abbiamo tanto amato Firenze, sopportiamo un esilio ingiusto” (trad. dal De Vulgari eloquentia, I,6,8).
Pur privato della sua “patria”, Dante crede soprattutto nella libertà e nell’Italia che vorrebbe culla dell’impero cristiano, sicura come una casa comune, educatrice come una madre con i figli.
L’esilio è il crogiuolo che amalgama le qualità umane di Dante e i materiali compositi del suo repertorio culturale: una condizione che sprona l’attitudine di Dante a conoscere e ad amare.
Ed è la sua coscienza morale a guidarlo, ad allontanarlo dalla sterilità dell’odio, confidando nel ravvedimento possibile dei suoi nemici, esortati cristianamente -non supplicati- a essere magnanimi: “che ‘l perdonare è bel vincer di guerra” (Rime, CIV, v. 107).
La fama letteraria che lo accompagna va convalidata con opere nuove (come il Convivio e il De vulgari eloquentia), ma è solo nel “divino” poema che tutte le conoscenze, esperienze e aspirazioni vengono rifuse e plasmate: è l’apice del sincretismo dantesco.
Il sacro poema è un testo che ingloba cielo e terra e la fede con la ragione, e per dipanarlo non c’è che tentare di allinearsi alla sua percezione del mondo, alla visione spirituale che esprime.
Assume la funzione catartica di una preghiera collettiva guidata da una voce ispirata: così parco nello scrivere di sé, Dante è consapevole della grandezza della sua arte e dell’importanza dell’arte come mezzo di elevazione spirituale e di un sacro dovere.
E’ un’opera che attraverso l’autore narrante di se stesso e dei propri doveri, impone dei doveri anche ai lettori.
Il primo: la lettura non può non creare una sensibilità a migliorarsi; infatti pone ciascun cristiano davanti ad una libera scelta: salvarsi o precipitare per l’eternità nell’abisso.
Occorre capire come resistere e contrattaccare, e il poema ci guida, insieme a Dante stesso, al campo di battaglia e a una vittoria che va, però, continuamente riconquistata.
Perciò il fluire della scrittura è come un fiume salvifico da non perdere mai di vista. Per provare timore (e pentimento) seguendolo giù nell’Inferno; stupore (e partecipazione) avvolgendosi con esso intorno al Purgatorio; amore (e meditazione) distendendosi insieme nel Paradiso.
Tre mondi, veri e necessari per i cristiani, che si svelano grazie all’occhio sincero e attento di un fedele che partecipa da responsabile di fronte all’umanità di cui si sente autentico interprete.
Un’impresa letteraria finalizzata a un potente rinnovamento religioso e politico, che avrebbe richiesto l’affermazione di un cristianesimo vissuto con rigore morale.
Per tracciare, per chi si trova in pericolo nella mortifera bassura del peccato, una via lunga e faticosa, ma possibile di liberazione dal male, che porta verso l’aria buona e salutare dell’altezza, dove riacquistare la purezza conseguita col battesimo.
Questa, facoltà di elevarsi e di congiungersi a Dio, permette all’uomo di superare il male assoluto, con il senso di giustizia e di umanità.
Aspirazioni e azioni volte a raggiungere alte mete nella società non possono svilupparsi, se non corrispondono all’ascolto della parola di Dio e alla sua messa in atto; altrimenti rappresentano un frutto avvelenato dalla superbia e il loro espandersi è causa di rovina per l’umanità.
A San Giovanni (Paradiso, canto XXVI) che chiede a Dante “Chi e che cosa indirizzò il tuo amore ad un segno così alto ed elevato?” risponde: “Dio è bene, è Bontà per essenza e tutte le cose sono solo un “lume di suo raggio”. Ma il Bene e la Bontà non possono non essere amati, essi generano l’amore. Per questo, l’amore verso Dio è il culmine massimo della mia vita, per me e per quanti cercano il vero”.
Nino Giordano