Ancora una volta, domani, 19 agosto, ricorderemo Alcide De Gasperi. A conferma del valore di un personaggio che rappresenta un prototipo dell’homo politicus per eccellenza e di quei pochi che assurgono al rango di statista. Nell’Italia moderna, solo Aldo Moro ne ha raggiunto il livello,  la profondità di pensiero, la capacità d’analisi e d’azione.

De Gasperi è riconosciuto “grande” perché, come pochi altri personaggi pubblici, ha mostrato di possedere il senso dell’evoluzione storica delle cose e dei processi politici conseguenti.

Sua specifica la dote, che non tutti posseggono, il mettere insieme l’adesione profonda ad un’ispirazione in maniera ferma e coerente e la fredda analisi dei problemi posti dalla cruda realtà delle cose e delle forze in campo. Sua l’attitudine ad affrontare una complessità di problemi conciliando ciò che, a prima vista, presa ciascuna per se stessa, quelle questioni  apparirebbero ad altri del tutto impossibili da portare ad una sintesi.

Oltre che alla sua formazione spirituale, prima di quelle culturale e politica, forse, molto è dovuto all’ambiente in cui visse da giovanissimo. In quel Trentino in cui viveva parte di una minoranza, qual era quella italiana in una propaggine dell’impero austro ungarico, egli assorbì la particolare attitudine che si sviluppa all’interno di tutti i gruppi minoritari in modo tale che l’essere marginalizzati rafforza nei principi e insegna a dosare spirito visionario e concretezza realistica.

Alcide De Gasperi da parlamentare austriaco a Vienna  auspicò che l’Italia rimanesse neutrale nel corso della Prima Guerra mondiale. Non dovette essere facile sopire l’anelito al compimento dell’Unità nazionale con il congiungimento del Trentino al resto del suolo italiano. Nonostante quella guerra, come poi si dimostrò, apparisse l’occasione per realizzare un sogno.

Successivamente, sarebbe spettato proprio a lui gettare le basi per quella “pacificazione” dell’Alto Adige, in cui le popolazioni tedesche e ladine erano state represse dal nazionalismo fascista, riconoscendo la necessità di assicurare un’autonomia sostanziale che, se non convinceva completamente i tirolesi meridionali, sicuramente indicava la via di una realistica ed equilibrata convivenza un po’ ripagante delle bizzarrie della Storia.

Il senso storico delle cose emerge evidente in De Gasperi in tanti altri momenti della sua esperienza politica, legislativa e governativa. Lo si coglie nella fermezza con cui esercitò la rappresentanza dei cattolici democratici nel Cnl nonostante le pressioni dei monarchici intenzionati a mantenere il controllo del Paese dopo venti anni d’ininterrotto sodalizio con i fascisti, in questo spalleggiati dai britannici, un po’ meno dagli statunitensi, che di fatto controllavano il Paese appena liberato.

Poi verrà il progressivo disimpegno dal fronte delle sinistre preparato e coltivato nel corso del ’47 e il cui sbocco sarà il superamento del governo di unità nazionale. Ciò comportò l’alleanza con quel mondo liberale verso cui la prima esperienza maturata con il Partito popolare aveva fatto emergere una decisa alterità, in parte paragonabile all’altra messa in campo contro il pensiero social comunista.

L’alleanza  con i liberali, però, servì a non concedere niente alla destra neofascista o autoritaria. E’ quello che non sempre fu capito bene da una parte delle Gerarchie della Chiesa a lungo tentate dalla spinta integralista che trovava in Gedda, allora alla guida dell’Azione Cattolica, una vera e propria alternativa che si pensava di poter spendere contro entrambi gli storici avversari dal credo liberale e da quello socialista. Soprattutto, si confermava la contrarietà allo sviluppo di un cattolicesimo politico democratico autonomo e aconfessionale che, per dirla con Giovanni Galloni “diveniva, pertanto, anche liberale”.

L’alleanza con il mondo economico e finanziario, d’altro canto, consentì al Paese di procedere democraticamente all’allargamento delle basi sociali della ricostruzione. Essa non poteva certamente realizzarsi senza l’apporto delle masse popolari con le quali era indispensabile dare vita a quella “riconciliazione” mancata sia dopo il Risorgimento, che fu fatto verticistico e senza alcuna tensione sociale, sia dopo la fine della Prima guerra mondiale che lasciò l’Italia in preda a quelle disuguaglianze che suonavano come vero e proprio tradimento della partecipazione popolare al conflitto divenuto, per la prima volta, una questione nazionale.

Questa sostanziale “riconciliazione” fu pilotata da Alcide De Gasperi attraverso le riforme sostenute dalla visione economica di Ezio Vanoni, contro il latifondismo improduttivo da Antonio Segni, per le abitazioni da Amintore Fanfani e grazie anche al sostegno assicurato alla struttura industriale del nord Italia, cui cominciava a dare un impulso importante l’apporto energetico garantito da Enrico Mattei mentre, in contemporanea, si dava vita alla Cassa del Mezzogiorno su impulso di Pasquale Saraceno.

Mattei avrebbe dovuto chiudere l’Agip, l’ente petrolifero italiano, proprio per disposizione di De Gasperi, e su pressione delle compagnie petrolifere europee e statunitensi, ma quando lo statista trentino si convinse della validità del progetto di Mattei non ebbe esitazione nel lasciargli fare esattamente l’opposto e, così, nacque l’Eni.

De Gasperi è l’espressione di una vita dedicata alla politica a sua volta rivolta alla Vita. Ciò significa la valorizzazione del concetto di Persona posta al centro del dispiegarsi dell’attività civile ed economica e, quindi, l’individuazione di quei limiti sociali da imporre all’operare capitalistico sulla base dell’ampliamento del ruolo della società, in piena coerenza con il pieno riconoscimento di tutti coloro che, come le donne, finalmente, assumevano i loro diritti politici a seguito dell’introduzione del suffragio universale.

Cruciale diverrà anche in Moro l’idea dell’allargamento delle basi popolari del processo democratico perché è da ciò che discende la risposta alle gracilità storiche delle istituzioni italiane e la possibilità che una più consolidata Giustizia sociale possa essere raggiunta attraverso il lavoro, senza che ciò limiti una coesistente e contemporanea libertà d’intraprendere.

De Gasperi seppe aspettare, sia pure amaramente, nel corso del ventennio fascista e accettò umilmente di pensare ai bisogni della propria famiglia accontentandosi di svolgere le mansioni di semplice bibliotecario presso la Biblioteca del Vaticano. Fu la stagione delle lunghe attese mentre il Paese s’inebriava della fondazione dell’Impero e degli innegabili successi internazionali di Mussolini osannato, persino, da quelle democrazie occidentali indifferenti all’antifascismo pre resistenziale in cui il ruolo dei cattolici si limitava a poca cosa.

Ci volle un’intera guerra, soprattutto le fasi finali con un sanguinoso conflitto fratricida, per il risveglio di un intero popolo finalmente costretto a riscoprire la libertà e la necessità, da De Gasperi avuta sempre nitidamente chiara, che essa dovesse essere coniugata con una più ampia estensione del benessere economico attraverso il lavoro.

E’ la sostanza della nostra Carta fondativa. Figlia diretta di quel fecondo e complesso rapporto creatosi sin dal 1943 nel Cnl, rafforzatosi dopo che De Gasperi fu fermo, all’indomani del referendum da cui uscì vittoriosa la Repubblica, nell’assicurare il superamento della squalificata monarchia dei Savoia e nel corso della successiva Assemblea costituente.

Durante quei cinque anni, egli seppe tenere assieme un mondo cattolico conservatore, espressione soprattutto del Mezzogiorno, dove non si era vissuta la cruenta esperienza della Repubblica sociale mussoliniana e l’occupazione nazista, e i cattolici centro-settentrionali che avevano potuto respirare a pieni polmoni il cosiddetto “vento del nord”. Questo, infatti, era entrato nelle vele delle tante schiere di resistenti cristiani e dato vita ad una propria guerra partigiana, anche distinta da quella dei comunisti, grazie ai fratelli Di Dio, a Enrico Mattei, a Eugenio Cefis e Paolo Emilio Taviani solo per citarne alcuni, cui andrebbero aggiunti almeno i nomi di Albertino Marcora, della Tina Anselmi e di Achille Ardigò.

Il senso dei processi storici fa trovare pronto De Gasperi, dunque,  all’appuntamento competitivo con le altre forze politiche, in particolare con socialisti e comunisti. Si trattava di procedere alla riorganizzazione dell’intero Paese. Egli si rese conto che doveva essere per prima cosa rimesso in piedi il tessuto connettivo dello Stato. Era inevitabile attingere a quanto fosse sopravvissuto di quello precedente. In questo, trovò una sostanziale consonanza con Palmiro Togliatti che, da Ministro della Giustizia, superò le spinte epurative dei social comunisti. Se queste fossero state portate alle estreme conseguenze non avrebbero certo consentito, subito, il ritorno alla normalità della vita civile e delle attività economiche.

A fronte di ciò c’è la valorizzazione delle amministrazioni locali che trovano un ruolo specifico nel superamento di una parte di quella visione centralistica costruita, prima, dal dirigismo verticale monarchico e, poi, dal fascismo, facendola ruotare pressoché esclusivamente attorno ai prefetti di emanazione ministeriale.

De Gasperi capì quando era giunto il momento di lasciare. Era perfettamente consapevole che il suo partito si stava trasformando. La Dc, sotto la spinta di Amintore Fanfani e dei nuovi democristiani, intendeva sì mantenere quello “spirito della coalizione” in cui il trentino aveva sempre creduto, così come l’idea dell’interclassismo, ma con accenti nuovi, anche in relazione alle mutate condizioni della società e dell’economia italiana. La Dc cambiava pelle e aspirava al successo sulla base di una nuova capacità di presenza territoriale, di un rinnovato “collateralismo” sganciato però dal peso elettorale esclusivo assicurato dall’apparato ecclesiastico per divenire anche partito dei grandi interessi quali quelli costituiti dal sistema bancario in crescita, dall’industria di Stato, dal capitalismo delle famiglie che contavano e che, come nel caso degli Agnelli e dei Pirelli, non erano del tutto ostili alla realizzazione di nuovi equilibri politici, e dal crescente apparato istituzionale che sempre più finiva per avere un forte peso elettorale. I tempi mutavano, così come la dialettica pubblica. Proprio sulla base di quei processi innovativi che era stato lo stesso De Gasperi ad avviare e sostenere.

Di Alcide De Gasperi, dunque, noi che vogliamo rivedere in campo il pensiero del cattolicesimo democratico, dobbiamo valorizzare il “metodo” del ragionare e dell’agire politico.

Un metodo che non è “tecnica” della politica intesa come puerile cosa che significa solo dedicarsi alla ricerca del consenso a qualunque costo, pronti a distaccarsi da principi e riferimenti che danno, invece, il senso di una presenza pubblica degna di questo nome. Si tratta di forma e di contenuti, uniti in un involucro fatto di comportamenti pubblici coerenti al cui interno vive la sostanza di un pensare politico che mette insieme una visione trascendente della Vita e il rispetto sostanziale della concreta dignità di tutti gli esseri umani in modo tale che la libertà, il lavoro, l’educazione e la sanità non diventino presidi riservati a pochi, ma fonte di crescita e di evoluzione per un popolo intero.

Giancarlo Infante

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