Cosa resta di Alcide De Gasperi, a poco meno di settant’anni dalla scomparsa, nella memoria del Paese o meglio nel momento storico stesso che stiamo attraversando?
Cosa resta o meglio cosa sappiamo ancora ascoltare ed apprendere dalla vita ed sull’esperienza politica del “ricostruttore”, dell’ “uomo di confine tra Italia ed Austria, tra Impero e Repubblica, tra Stato e Chiesa”, come lo definisce la Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia che oggi lo ricorda nel suo Trentino ( CLICCA QUI )?
Cosa resta del grande leader e dello statista che – come scrive Giancarlo Infante, nell’articolo qui pubblicato ieri ( CLICCA QUI )- “ha mostrato di possedere il senso dell’evoluzione storica delle cose e dei processi politici conseguenti”?
Resta, anzitutto, la spiritualità di un cristiano autentico come elemento non collaterale, ma ontologicamente costitutivo della sua capacita’ di leadership. Fede religiosa, dimensione spirituale, affetti familiari e vita politica non sono per De Gasperi, momenti separati e distinti, tutt’al più accostati, ma versanti che reciprocamente si tengono e danno conto dello straordinario equilibrio di una personalità che non ha mai bisogno dei toni dell’arroganza per simulare una forza che e’, invece, autentica e vera, cosicché può permettersi di riconoscersi nell’umiltà di chi avverte il divario che, in ogni caso, corre tra le proprie capacita’ ed il compito immane che gli si para davanti.
Non si spiega altrimenti De Gasperi: la fermezza e quell’intima serenità di spirito che ha sempre conservato anche nelle sofferenze più crude della sua vita personale e nei momenti più carichi di tensione e di responsabilità delle vicende del Paese che ha vissuto da protagonista.
Oggi la qualifica di “leader” – o addirittura di “uomo di Stato” – è ampiamente inflazionata. La si elargisce con tale noncuranza e generosità da apparire un laticlavio che onora perfino la figura del “caporale” di giornata. De Gasperi, al contrario, ci insegna come non sia possibile essere riconosciuti “leader” senza una autentica, profonda, consolidata competenza culturale e politica ed a prescindere da quello spessore interiore che rappresenta l’unica vera garanzia per quella capacità di riportare a sintesi il ventaglio delle questioni in campo, secondo un metro oggettivo ed equilibrato di valutazione, che da’ la misura del vero servitore delle istituzioni democratiche e del bene comune.
Del resto, è solo il tempo che oltrepassa la cronaca del quotidiano e via via si inoltra nella dimensione più pacata e riflessiva della storia, a decretare le “leadership” effettive, quelle che, come nel caso di De Gasperi e di pochi altri, resistono al vaglio impietoso della memoria.
De Gasperi ci lascia ancora non solo un esempio di onestà cristallina, ma pure un monito di sobrietà, come elemento, anche qui, sostanziale della sua vocazione politica. Lo dice espressamente in quella bellissima lettera in cui spiega alla futura moglie che non intende guadagnare di più e, dunque, chiarisce quale sia il tenore di vita che può garantire alla famiglia cui intendono dar vita.
“Leader” è chi traccia nella storia del proprio Paese un solco profondo tale per cui non se ne può più prescindere, neppure da parte di coloro che gli succedono e sia pure quando muovessero da posizioni differenti dalle sue. De Gasperi è il leader che ha irrevocabilmente legato il destino e la storia dell’Italia repubblicana alla prospettiva dell’unità politica dell’Europa e, nel contempo, l’ha stabilmente collocata nel contesto del mondo occidentale, nel quadro delle democrazie più avanzate. Una strada che perfino gli oppositori duri di quegli anni hanno dovuto, sia pure tardivamente, riconoscere e addirittura far propria.
Non si tratta solo di memoria storica, ma di stringente attualità, dal momento che sono tuttora questi i riferimenti che danno conto del nostro Paese alla collettività internazionale. Non ultimo, De Gasperi lascia in eredità alle nostre generazioni – anche a quelle che seguiranno, se vorranno via via affinare gli strumenti della democrazia del tempo post-moderno – il concetto e l’esercizio sul campo di quello “spirito di coalizione” che tanta parte ha avuto nello sviluppo democratico del nostro Paese.
La scelta di Alcide De Gasperi di allargare la partecipazione al governo del Paese – per quanto la Democrazia Cristiana disponesse, dopo il 18 aprile ’48, della maggioranza assoluta in Parlamento – alle forze laiche e minori di centro, superando le suggestioni di segno contrario che abitavano anche dentro il partito ed in molti ambienti del mondo ecclesiale, rappresenta, in ultima analisi, il momento decisivo di quel forte consolidamento della democrazia su cui si svilupperà la strategia di progressivo assorbimento del popolo italiano dentro l’ordinamento democratico e le istituzioni poste a suo fondamento.
La stessa politica “morotea” di costante attenzione all’ampliamento delle basi democratiche dello Stato trova qui la sua prima origine e la sua ispirazione. E’ una lezione che vale tuttora e rinvia alla responsabilità delle forze politiche di saper costruire – oggi, a maggior ragione – nella piena consapevolezza di ciò che pur le distingue, mediazioni di alto profilo che sappiano raccordare gli interessi particolari di ognuno a quell’interesse generale del Paese che li legittima e li rinvia a quel “bene comune” che si qualifica come tale nella misura in cui il vantaggio di ciascuno, soggetto, gruppo sociale o categoria che si tratti, non è mai a detrimento dell’altro.
Domenico Galbiati

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