Nel corso dell’ Assemblea fondativa di INSIEME, domenica scorsa, abbiamo annunciato il proposito di ricorrere alla “petizione” – strumento previsto dalla Costituzione, rivolto al Parlamento e diretto a favorire una partecipazione popolare “attiva” alla vita democratica del Paese – al fine di riportare all’attenzione della pubblica opinione e delle istituzioni, temi ed argomenti lasciati scivolare ai margini del confronto politico, talvolta in modo studiato, cosicché vengano consegnati all’oblio.
Per quanto sia stata largamente festeggiata la caduta delle ideologie, vi sono tuttora cascami di quel mondo che si ripercuotono nel nostro. In modo silente. In altri termini, questi codazzi sfrangiati di vecchie ideologie, oggi si esprimono tacendo, cioè elevando una certa questione a tabù. Senonché, a maggior ragione, in un contesto sociale “aperto” come vorremo fosse il nostro, questi spazi tematici interdetti, quasi fossero ipostatizzati, rappresentano un vulnus alla libertà del confronto. C’è, ad esempio, un “clericalismo” della cultura individualista e dei cosiddetti “diritti civili”, in cui si attesta il suo più opaco dogmatismo, tale per cui il semplice accennare a strategie di prevenzione dell’aborto, già significa sfidare il relativo tabù.
L’inibizione che quest’ ultimo esercita – vale, ad esempio, anche per la libertà di educazione, di cui pure vogliamo occuparci, con altra petizione – paradossalmente si manifesta, soprattutto, nel luogo in cui elettivamente dovrebbe essere superata, cioè in Parlamento. Cercare, infatti, di porre in discussioni simili argomenti nelle sedi istituzionali, sarebbe come gettare un sasso nello stagno ed intorbidare le acque, fino al punto di incepparne il funzionamento anche sugli altri versanti tematici della loro azione. Ne consegue che la petizione, se impiegata in modo intelligente e politicamente appropriato, non e’ solo la generica promozione di un pronunciamento popolare, bensì lo strumento di una interlocuzione tra società civile e Parlamento, che, in specifici contesti, può trasmettere a quest’ultimo quel tanto di sollecitazione necessaria a sbloccare determinati vicoli ciechi. I quali, nell’economia complessiva dei lavori, parlamentari finiscono per imporsi.
Anziché inseguire finzioni farlocche di presunta democrazia diretta, capaci solo di derubricare la politica a mera propaganda, così da aprire sterminate praterie a poteri extra-istituzionali di ogni genere, studiamo piuttosto come si possano affinare gli strumenti costituzionali finalizzati ad una più appropriata e diretta interlocuzione tra organi della democrazia rappresentativa, cittadini ed ambiti della società civile, soprattutto se strutturati in funzione di una competenza che siano in grado di garantire ad alto livello. Tutto ciò nel solco di una maturazione e di un’apertura del nostro ordinamento istituzionale verso quella dimensione, potremmo dire, post-moderna della democrazia, cui necessariamente ci spingono l’insieme dei fenomeni connessi alla globalizzazione, in modo particolare la crescita esponenziale della comunicazione.
In buona sostanza, nel passare dalla democrazia del tempo moderno che aspira all’organicità strutturata della ragione, alla democrazia del tempo post-moderno, segnato da quel tanto di irrazionale implicito nella logica del frammento e della società liquida, c’è di mezzo una sfida che dobbiamo accettare.
La modesta e parziale strada della petizione è un primissimo invito, forse già un piccolo incipit in tale direzione. Due profili – fortemente consonanti con il nostro orientamento – appaiono essenziali in questo trapasso: occorre un più di verità e un più di libertà. E, fin d’ora, anche la petizione ed il suo impiego, come lo immaginiamo, rientrano in quest’ottica.
Guardando, del resto, a quel versante della politica come “funzione diffusa” e non più gelosamente e di fatto trattenuta nel ridotto istituzionale o partitico, dove spesso inclina a liturgie che ne ovattano la facoltà d’indirizzo. A condizione che si rispettino criteri rigorosi di competenza, di appropriatezza e di oggettività, nonché orientamenti ispirati all’interesse generale della collettività, cosicché su questi convergano anche quegli interessi particolari in campo, che solo nel “bene comune” trovano la loro legittimazione di fondo, la politica – intesa, dunque, come attitudine a “pensare politicamente” – va assunta come patrimonio comune e non riserva di caccia esclusiva per addetti ai lavori
Riportare l’attenzione su temi negletti, quali la prevenzione dell’aborto o la libertà di educazione, significa, in concreto, corrispondere a quel “compito di verità’” che abbiamo più volte evocato. Proporre, come intendiamo fare, una terza petizione sul tema del Terzo Settore, vuol dire invocare quella dimensione di maggiore libertà che dà respiro ed anima al Paese.
Domenico Galbiati