Siamo immersi in una condizione che ci sovrasta, inafferrabile e perfino beffarda. Ci rendiamo conto che per apprendere l’ammonimento che ci sembra la pandemia rechi in sé, dobbiamo prima comprenderla.
Siamo fatti per rilevare il senso delle cose o addirittura per attribuirlo, riordinandoli in una sequenza logica, ad eventi che, a prima vista, appaiono del tutto insensati. Ed oggi ci sentiamo spiazzati appunto perché quel che ci sta succedendo non ha alcun senso.
Se ne diamo una spiegazione meramente “naturalistica” – il virus, la zoonosi o piuttosto i laboratori, il concorso dell’inquinamento, la densità abitativa e la fragilità degli anziani, la globalizzazione – ci rendiamo conto che siamo fermi ad un momento descrittivo che ancora non spiega e non giustifica nulla; non risponde alle domande vere che premono in ognuno di noi.
Al contrario, affiora – sia pure insensibilmente e senza che mettiamo coscientemente a tema l’argomento – la nostra strutturale, connaturata e non alienabile intenzionalità orientata alla trascendenza, cioè l’attitudine, anzi la necessità esistenziale, di cogliere il senso delle cose più a fondo, al di là del loro immediato apparire, raccordandole alle domande ultime cui non possiamo rinunciare. Al punto che il credere di poterle scansare, in effetti altro non è che la modalità più banale di risposta alla loro irrevocabilità.
Probabilmente anche il positivista più accanito, al di là della constatazione fattuale di una concatenazione di eventi originati da un “primum movens” del tutto occasionale e, di per sé, incidentale ed insignificante, non può evitare, sia pure entro una concezione del tutto immanentistica della storia, di interrogarsi circa una prospettiva di senso che va ben oltre l’esperienza contingente.
E qui c’è un primo insegnamento – forse addirittura fin d’ora un piccolo guadagno – che dovremmo tenere in gran conto anche quando ne saremo usciti: l’urgenza di ritrovare quella dimensione della trascendenza che è naturalmente propria della fede, eppure non esclusiva della prospettiva religiosa in quanto fa tutt’uno con la nostra umana natura, talchè una volta smarrita, come spesso oggi succede, genera un vuoto abissale ed alienante.
Se avessimo una macchina del tempo capace di proiettarci a cent’anni, o addirittura mille, da questi nostri giorni e potessimo consultare quanto, nel frattempo, ne avranno scritto gli storici, potremmo farci un’idea più puntuale di quanto stiamo attraversando, a riprova di quanto sia difficile vivere il proprio tempo nella consapevolezza del suo effettivo valore e collocarlo, lungo l’ininterrotto cammino della vicenda umana, in un “dove” ed in un “quando” che sia significante.
Scopriremmo che, in definitiva, siamo, in qualche modo, abitati dal nostro futuro e, quindi, guidati, non abbandonati a noi stessi. E’ quanto si può evincere – almeno per i credenti, ma, in effetti, vale per tutti – da una bellissima pagina che Edith Stein ( Santa Teresa Benedetta della Croce), in “Essere finito e Essere eterno”, la “summa” della sua riflessione filosofica, dedica, appunto, alla ricerca della “totalità significante”, cioè del nesso che lega il “tutto” nel Logos.
Sostiene che: “Il contesto della nostra propria vita è forse l’esempio che si presta meglio per comprendere che cosa intendiamo”. Prosegue distinguendo tra “ciò che è fatto di proposito” e, come tale, “dotato di senso e intellegibile” e ciò che, invece, “è fortuito …in se’” e, quindi, “privo di significato ed inintellegibile”. Ricorre, poi, ad un esempio concreto per mostrare come da un fatto “dotato di senso ed intellegibile” ne possa scaturire un secondo, al contrario, “fortuito ed inintellegibile”. Senonché – se “dopo anni, ripenso alla mia vita” – constato come da quest’ultimo, piuttosto che dal primo, sia scaturito un che di assolutamente essenziale per la mia vita. Per cui – sostiene Edith Stein – comprendo come, in effetti, la mia scelta consapevole sia stata, in realtà, funzionale a quel “fortuito” che ha deciso della mia vita.
Mi convinco, continua Santa Teresa Benedetta della Croce, allieva prediletta di Edmund Husserl, che: “Ciò che non era nel mio progetto, era nel piano di Dio. E quanto più questo accade ripetutamente, tanto più si fa viva in me la convinzione di fede che per Dio non esiste il caso, che tutta la mia vita è predesignata nel piano della Provvidenza divina, anche nei suoi minimi particolari e che agli occhi onniveggenti di Dio è un contesto perfettamente intelligibile. Allora comincio a rallegrarmi per il lume di gloria in cui anche a me sarà svelato questo messo significante. Questa considerazione tuttavia non si riferisce solo alla vita umana singola, ma anche alla vita dell’intera umanità……”.
Domenico Galbiati

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