Salvini si è preso a sberle da solo. Il suo amico Orban l’ha stretto in un dilemma senza via d’uscita. O smentiva sé stesso, o meglio le sue dichiarazioni più recenti dirette a rivendicare la piena legittimità del Parlamento contro la presunta usurpazione delle sue funzioni da parte di Palazzo Chigi, plaudendo ai “pieni poteri” pretesi dal Premier ungherese oppure redarguiva l’amico che introduce in un Paese dell’Unione un virus anti-democratico che di questi tempi può essere anch’esso a rischio di contagio.
Ha scelto la prima alternativa. Il che dimostra che la vocazione democratica di Salvini non è un principio superiore inappellabile, ma un abito di scena da vestire o da smettere a seconda delle parti in commedia che si è chiamati a recitare di volta in volta.
La mossa di Orban poco o nulla ha a che vedere con la lotta al Coronavirus. Si tratta di un blitz che sfrutta l’onda emotiva del momento e l’attenzione concentrata altrove per comprimere le opposizioni e fare avanzare il disegno di una democrazia che salva la facciata giusto per poterne compromettere la sostanza senza colpo ferire.
La chiusura del Parlamento, sine die, è di fatto un golpe, magari in guanti di velluto. Ed il consenso che pare il popolo ungherese riservi in questi frangenti in misura crescente al governo, non è un’attenuante, ma piuttosto un fattore di maggiore preoccupazione. Conferma come popoli impauriti spesso facciano pressoché da soli: abboccano all’amo della demagogia e si buttano volentieri nelle braccia del cosiddetto “uomo forte” di turno.
Ed il nostro ci sta ed applaude. Quando i “pieni poteri” li ha invocati per sé, la scorsa estate, la reazione di molti si è risolta o in una risata o in un moto d’indignazione. L’una e l’altra risposte emotive ed insufficienti. Il segnale era, con tutta probabilità, più forte di quanto non sia apparso a prima vista. Forse un tentativo di tastare il polso sulla lunghezza d’onda di una offensiva sovranista che cerca di riprendere vigore dopo la battuta d’arresto dello scorso 26 maggio.
Viste le generali indignazioni sollevate dal suo plauso per Orban, per gettare fumo negli occhi, Matteo Salvini si è poi messo a “sparare” delle proposte, in materia di interventi contro gli effetti del Coronavirus, che non stanno né in cielo né in terra. Ha avanzato l’idea, addirittura, di un nuovo condono edilizio e fiscale quando, semmai, emerge la necessità di stroncare una volta per tutte evasioni ed elusioni per rafforzare il Servizio sanitario. E’ un classico. Troppo spesso la demagogia va a braccetto con l’idea “dell’uomo solo al comando” e di chi preferisce chiudere il Parlamento per evitare di misurarsi con la complessità offerta dalla realtà delle cose.
La democrazia è invece, anzitutto, questione di regole che diano struttura e forma istituzionale alla coscienza di sé ed alla maturità civile di un popolo. E’ anche un ideale ed un sentimento. Esprime un’attitudine, una vocazione ai valori della libertà e della giustizia sociale e, dunque, della responsabilità. Insomma, non è solo una norma o una procedura, ma piuttosto una dimensione che dev’essere vissuta interiormente. Presuppone un coinvolgimento soggettivo, una convinzione profonda. Un autentico leader deve saper dar prova di sé anche su questo piano.
Per la democrazia, per la libertà bisogna saper fare il tifo. Democrazia e libertà vanno “sentite” profondamente, senza sentimentalismi, senza retorica, come momento essenziale di quel rispetto pieno e radicale della dignità di ognuno su cui si fonda la convivenza civile.
Forse anche peggio rispetto a quella di Salvini, perfino cinica, è stata la reazione alla mossa di Orban da parte della Meloni, espressione, ancor più genuina della stessa Lega – che, pur ha, al di là del Capitano che ancor oggi la padroneggiare, una sua fisionomia popolare – della destra cruda, più autentica e più demagogica.
E’ difficile tracciare oggi una mappa o disegnare addirittura un possibile approdo del nostro sistema politico dopo il tempo della pandemia; valutare quale fisionomia assumerà l’intero spettro dello schieramento politico del nostro Paese; a quali aggregazioni potrà dar luogo; quali leadership sarà in grado di esprimere, ma fin d’ora è importante fissare alcuni punti di repete, come li chiamano i chirurghi, cioè stabilire punti fermi, confini non valicabili che consentano di tracciare il campo delle alleanze possibili e delle collaborazioni impraticabili.
In caso contrario, saremmo costretti a muoverci in un acquitrino melmoso, irto di insidie.
Domenico Galbiati