L’ immagine cui è ricorso Giancarlo Infante è potente ed evocativa: “…come se il mondo non bastasse più per tutti…” (CLICCA QUI). Come se – pur senza cedere a toni apocalittici – entrassimo in una stagione, della storia ultimativa, incattivita. Come se nello spirito del nostro tempo irrompesse un sentimento malefico, cioè orientato a recare danno, distruzione, morte del tutto gratuitamente e tale devastazione bastasse e fosse premio a sé stessa, risolvesse in sé le ragioni di una guerra altrimenti immotivata ed incomprensibile.
Il nostro mondo, il mondo occidentale e transatlantico, il mondo delle democrazie sta dimostrando di non essere quel “ventre molle”, quella “plutocrazia” imborghesita ed imbelle, si sarebbe detto in altri tempi, che forse Putin immaginava. Del resto i dittatori, accecati dal loro stesso abito mentale, vittime di una vuota retorica patriottarda che non li esime, anzi li spinge a mandare al macello il meglio della loro gioventù, quasi celebrassero un sanguinario rito sacrificale ad una concezione malvagia della storia, hanno sempre bisogno di “spezzare le reni” a qualcuno, anzitutto per rassicurare loro stessi e confermare quell’ illusione della loro supposta onnipotenza, senza cui cadrebbero dal loro piedistallo.
Camminiamo su un crinale scivoloso, tale per cui un passo falso impercettibile, può moltiplicare a dismisura i suoi effetti fino ad una caduta rovinosa e dirompente che sostanzialmente accade da sé. C’infiliamo in un percorso tale per cui noi, piuttosto che guidarli, siamo determinati dagli eventi, che si autoalimentano secondo un processo a cascata, rispondente ad una sorta di necessità meccanica cui non si sfugge. Come se fossimo peggio che travolti, attraversati, intimamente rotti da un flusso della storia che non siamo in grado di trattenere, scivola dalla presa delle nostre mani come sabbia informe che si disperde senza un disegno, senza che vi resti traccia dell’intenzione con cui avremmo voluto comporla in un che di organico.
La minaccia nucleare prima adombrata, poi smentita “a meno che….”, in certa misura, ancora posta sul tavolo e ribadita, rievoca quella deterrenza del terrore, condotta sulla falsariga della polarità “sopravvivenza-olocausto” dell’umanità. Questa condizione, come ed ancor più della pandemia, ci pone di fronte al dilemma radicale tra la vita e la morte e tocca le corde intime di cui è intessuto il nostro stesso esserci. In effetti, questa particolarissima similitudine tra i due eventi che percuotono il nostro tempo dovrebbe farci riflettere, dato che attraversa ed interroga il versante politico della nostra riflessione, ma, nel contempo, va oltre e lo trascende.
Il confronto Est-Ovest che torna a proporsi duramente al punto da scotomizzare ancora quella direttrice Nord-Sud che andrebbe, invece, seriamente presidiata, per ragioni di elementare giustizia, ma anche per evitare che vi alligni un fomite di violenza; le autocrazie; gli integralismi ed il fanatismo terrorista; la xenofobia ed il razzismo; i “primatismi” nazional-populisti; le abissali, avvilenti disparità sociali che feriscono ed umiliano la dignità delle persone, si stagliano sulla scena e rendono, in effetti, l’idea, sia pure ancora confusa, in maniera inconscia e forse un po’ visionaria, che sul nostro pianeta vi sia un tale assembramento e, quindi, una incontenibile, insuperabile competizione ultimativa, al punto che non ci sia spazio per tutti. A meno d’imporre ferree gerarchie e primati inattaccabili nell’ accesso alle scarse risorse.
Si comprenderebbe, dunque, perché la storia, piuttosto che alla ricerca, non si dice, della “pace universale”, ma almeno di una ragionata e ragionevole “governance” del conflitto pur inevitabile, si incammini verso uno scontro a testa bassa tra opposti “imperialismi”. Assumendo che questi ultimi, piuttosto che paradigmi aperti di “multilateralismo”, siano l’unica forma secondo cui oggi si possano comporre le relazioni internazionali.
Un giorno esaurita la forma bellica dello scontro, resterà infetta e purulenta la ferita recata al cuore dell’Europa e la ricomparsa dello spettro nucleare non verrà facilmente addomesticata e riassorbita, se non nei tempi lunghi. Anzi, rischia di diventare la metafora di una condizione di paura strisciante, difficile da esorcizzare che morde e scuote non solo sul piano di un’ algida analisi degli scenari planetari, ma ben più immediato l’orizzonte di vita e le attese di ciascuno.
Come può reagire l’ Occidente, l’Europa in modo particolare? Assumendo un tale possibile scenario come una condanna ineludibile e comportandosi di conseguenza? Oppure cercando di sminarlo? O forse meglio non deve, per poterlo sminare, porsi nella condizione di saperlo affrontare, anche militarmente, ove si rivelasse, appunto, non eludibile? Quali risorse morali, culturali, civili deve mobilitare l’Occidente non secondo un affresco generale, ma dentro la coscienza singolare, personale di ognuno per reggere questa transizione epocale, in cui l’umanità mette in gioco la comprensione che ha di sé stessa? E’ questione che va ben oltre i cosiddetti “stili di vita”, la sobrietà, ad esempio, o quant’altro. Concerne piuttosto la “vita” come tale.
Spiace – si fa per dire – farlo presente ai cultori della “libertà libertaria”, ma la loro stagione è finita. I diritti civili, vissuti nel segno dell’equilibrio, della responsabilità, del sentimento di appartenenza ad un destino comune, lontano da ogni ripiegamento del “desiderio” che si erga a diritto e norma di sé stesso, va affiancata da una nuova stagione di “diritti sociali” che innervino la vita collettiva non più di fredda autoreferenzialità, bensì di quel calore che nasce dalla dimensione “relazionale” costitutiva della persona.
Per questo, nel nostro piccolo, sosteniamo che la difesa della vita, la dignità incontrovertibile della persona, i temi eticamente impegnativi ed a forte impatto antropologico sono essenzialmente fondativi delle stesse ragioni che sovraintendono alla giustizia, sostengono l’aspirazione insopprimibile alla libertà e gli ordinamenti istituzionali che la garantiscono.
Domenico Galbiati