Nel suo recente appello Massimo Cacciari ha chiesto di ripartire dalla cultura e dalla scuola per porre un argine ad un “deriva sociale”, a suo dire molto pericolosa.
Già, la scuola.
Quale scuola?
Un riflessione totalmente assente, almeno a livello di opinione pubblica, riguarda proprio la finalità della scuola, uno spazio dove pure passano molte ore del loro tempo nelle fase più plastica e critica dell’evoluzione tutti i bambini e i ragazzi del nostro paese e dove quotidianamente lavorano centinaia di migliaia di nostri concittadini, la maggior parte dei quali laureati e anche specializzati proprio nell’insegnamento.
Nell’appello di Cacciari si intravede una idea di scuola come luogo di cultura, dove cioè far scaturire nelle nuove generazioni la percezione del bello e degli ideali di umanità e di apertura alle diverse forme di sapere e di convivenza pacifica.
Quale è il fine “ qui e ora” della scuola italiana?
L’obiettivo dato da Gentile, nell’epoca fascista, era quello di una alfabetizzazione generalizzata su cui innestare, per i più meritevoli e per quelli provenienti dalle classi borghesi, la formazione necessaria per lo sviluppo della classe dirigente dell’Italia.
Le varie riforme che si sono succedute dagli anni sessanta in poi, tutte più o meno incerte e incomplete, hanno abolito l’impronta “classista” della idea di scuola di Gentile, ma raramente hanno definito – o provato a farlo – le nuove finalità della scuola con una programmazione coerente e sufficientemente ordinata e attraverso una riorganizzazione capace di intercettare i profondi cambiamenti sociali in essere.
Negli ultimi decenni, la situazione è addirittura peggiorata: abbandonate le velleità ideologiche di stampo marxista di fine degli anni ottanta del secolo scorso, si è passati, senza cambiare né impianto, né metodo, ad una idea di scuola ancora più confusa, oscillante tra velleità di formazione delle eccellenze, in funzione essenzialmente del mercato del lavoro interno e internazionale, misurazione meritocratica di competenze degli studenti e di capacità degli insegnanti in nome di un astratto valore del sapere nominalistico e formalistico, nichilismo educativo dove il minimo comune denominatore sotteso è diventato “luogo di parcheggio” più o meno esplicito nel mentre i genitori lavorano, attraverso una bulimia di programmi, obiettivi didattici, materie e esperienze di studio, rovesciate addosso agli istituti scolastici, nel frattempo “pseudo-autonomizzati” , all’interno di un conflitto crescente tra “operatori della scuola” (da tutelare burocraticamente) e “famiglia”, cui si è attribuito il “falso potere” di acquirenti del servizio, quasi fosse un bene manifatturiero da acquistare al supermarket della formazione….
Difficile che in questa situazione possa uscire qualcosa che vada nella direzione auspicata dal prof Cacciari: e dovrebbe ben saperlo ….
Non che manchino esperienze molto positive, ma si tratta di “esperienze” legate al fortuito incontro di eccellenze personali nel corpo docente, favorevoli circostanze presenti nel contesto locale dove è insediata la scuola, passione e coraggio educativo di gruppi di famiglie che più o meno casualmente si ritrovano a condividere il percorso scolastico dei figli.
Non manca al comune sentire degli italiani, sensibilità e intelligenza per desiderare una buona scuola per propri figli: anzi, siamo probabilmente la popolazione più attenta! Manca completamente una visione di indirizzo che chi governa ha il dovere di definire e delineare attraverso un progressivo confronto pubblico come in una democrazia si dovrebbe fare: mancando la visione politica, si inseguono le suggestioni tecnocratiche che vengono proposte come fine di una scuola moderna da esperti non sempre disinteressati.
Definite le finalità, reso meno complicato e burocratico il percorso di valorizzazione e responsabilizzazione dei docenti e del personale scolastico (grave la colpa del sindacato che non è stato per nulla motore di cambiamento), andrebbe poi delineato un sistema di verifiche che consenta a chi governa e all’opinione pubblica di controllare se la direzione di marcia sia coerente, con strumenti che rendano possibile la correzione di rotta, nel caso questa si discosti troppo dalle attese.
Solo dopo aver disegnato pazientemente l’impianto, si potranno fare le verifiche di compatibilità economica, sempre necessarie: curioso che si parta invece dai fondi disponibili come elemento guida del pensiero strategico complessivo, con il risultato che tranne qualche deludentissimo “maquillage” per il personale docente, non si può che rinunciare a qualsiasi ipotesi di cambiamento.
In una visione che mette al centro la persona, i “soldi” sono funzione dell’obiettivo che si intende raggiungere e non viceversa: se l’obiettivo è “parcheggiare” i ragazzi o preparare le eccellenze alle sfide del mondo produttivo globale, il costo attuale del sistema è financo eccessivo! E anche le sacrosante rivendicazioni economiche del personale della scuola, non possono bloccare una riflessione approfondita sul fine della scuola in una società complessa e multietnica, né essere l’unico elemento su cui giocare la naturale conflittualità tra risorse e bisogni.
Tutti conosciamo la realtà: edifici per lo più vecchi e anche pericolosi per la sicurezza, burocratizzazione e svalorizzazione del personale della scuola in ogni suo ordine e grado, organizzazione concreta del tempo scolastico e extrascolastico lontana dalle esigenze delle famiglie, sempre più nucleari e stressate dal mercato del lavoro, bulimia di programmi scolastici e materie di insegnamento visti come valore in sé e non strumenti di educazione complessiva, elevata variabilità, anche nei medesimi istituti, dei risultati degli apprendimenti formali (gli unici misurati e i soli che sembrano interessare un numero considerevole di genitori) distanza elevata dalle necessità del mondo del lavoro e progressivo impoverimento culturale dei ragazzi.
Eppure in questo scenario tragico la sensibilità italiana continua a mantenere – pur con risultati spesso discutibili – un elevato ideale di scuola , come testimoniato dalla precisa scelta, più volte ribadita, di una scuola inclusiva, anche per i bambini e ragazzi con disabilità: qualcuno si è accorto che “scuola inclusiva” non fa rima con “meritocrazia”?
Nella stagione dei grandi ideali – ora malinconicamente smarriti – l’Italia si era data una legislatura coraggiosa, a tratti financo utopica, finalizzata a rendere effettiva l’inclusione in ogni scuola dei ragazzi con disabilità anche grave: lo slancio ideale e coraggioso è stato invero applicato nella modalità più sciocca e stolida possibile ( e tantissimi bambini, famiglie e insegnanti lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno!), attraverso una burocratizzazione ipertrofica di norme e codicilli, tutte giocate sulla logica dei “diritti individuali esigibili” e della “contrapposizione tra legittimi interessi”.
Un disastro nel disastro: e sulla pelle dei più deboli.
E in questo magma burocratico (domande, commissioni, la infinita querelle sulle risorse insufficienti – ore di sostegno da conquistare, personale educativo aggiuntivo da “strappare” all’ente locale – , Programmi educativi individualizzati strutturati in formalismi documentali complessi che ignorano il dato banale che ogni studente è tale solo in un contesto di classe – ossia di gruppo- e che non ci può essere obiettivo individualizzato avulso da obiettivi comuni a tutto il gruppo-classe nel suo insieme, groviglio di competenze tra scuola, sanità e enti locali) si è progressivamente smarrita la portata rivoluzionaria della scelta inclusiva, al punto che ancora è motivo di “battaglia ideologica”, invece che di concrete assunzioni di decisioni e responsabilità: lo spirito polemico, oltre alla passione per le paste alimentari, è probabilmente la vera essenza degli italiani….
Purtroppo, le scuole “cattoliche”, non sempre sono state all’avanguardia nel promuovere questa “passione per l’inclusione”: certo non ha giovato la ideologica querelle contro i finanziamenti alla scuola privata, retaggio di un anticlericalismo mai sopito, ma anche le stesse istituzioni scolastiche di ispirazione cattolica non si sono mai distinte per coraggio, zelo innovativo e per fare propria con convinzione questa scelta politica italiana, utilizzandola come concreta esperienza educativa di gruppo.
A ben pensare, proprio l’inclusione scolastica del disabile, poteva essere e può essere, il motore per un profondo rinnovamento del fine della scuola: accogliere, ascoltare, aspettare, fare spazio all’altro, collaborare, lavorare assieme, assaporare il piacere di obiettivi di gruppo anziché individuali, non sono forse quei principi di umanità universale adombrati dal prof Cacciari, come deriva all’egoismo sovranista?
E non sono forse i fondamenti di quella “passione educativa” che pure è largamente presente nell’humus della cultura cattolica?
Da troppo tempo, i richiami all’inclusione e all’attenzione all’altro sono solo “pesi moralistici” messi sulle spalle degli …altri! L’ipocrisia moralistica è la cifra peggiore della deriva di una parte non piccola della cosiddetta “cultura cattolica” degli ultimi quarant’anni, spesso camuffata da un superficiale clericalismo che, non mettendo mai in discussione le istituzioni religiose, ha fornito un comodo alibi contro il cambiamento alle coscienze di molti laici cattolici, cui spetta in prima istanza interpretare “l’incarnazione di ciò che ha valore” in un mondo in tumultuoso e disordinato cambiamento.
Un movimento politico che dichiara apertamente la sua ispirazione e identità cattolica, deve formalizzare proposte concrete che intercettino i bisogni della gente, partendo apparentemente anche da “piccole questioni”.
E l’inclusione vera e reale dei bambini e ragazzi disabili, deve diventare il primo tassello per il cambiamento della scuola, per testimoniare che la “passione per la persona” non è un ideale astratto o da declamare in nome di una identità o di una diversità, ma la cifra della quotidianità: e ciascuno, in relazione al proprio ruolo, deve sentirsi impegnato a realizzarla nella concretezza.
Un movimento come Politica Insieme può e deve farsi promotore di una iniziativa sistematica e concreta che metta al centro delle scelte didattiche e educative la inclusione delle persone con disabilità e l’ascolto delle famiglie dei bambini e ragazzi disabili, coinvolgendo prima di tutto le istituzioni scolastiche che fanno riferimento a realtà religiose: prosocialità, condivisione, spirito sociale, primato della persona sulle “cose”, non possono continuare ad essere auspici moralistici, ma obiettivi concreti da attuare e perseguire nella didattica quotidiana, condividendo il cambio di prospettiva con corpo docente e famiglie, promuovendo formazione specialistica e innovazione didattica, sviluppando maggiormente la dimensione cooperativa (anche nella valutazione formale) rispetto alla acquisizione nozionistica, che già adesso – e in futuro ancora di più – sarà sviluppabile grazie alle nuove tecnologie disponibili, così da far crescere le nuove generazioni in un ambiente scolastico dove l’esperienza del vivere il percorso formativo in una dimensione di reciprocità sociale sia il calco su cui plasmare una visione concretamente diversa della persona umana.
Simultaneamente, nel manifesto di “politica insieme”, non possono mancare obiettivi di riforma concreta, normativa e organizzativa, cominciando a mettere al centro del cambiamento scolastico, la persona con disabilità e la sua famiglia, beninteso contemporaneamente alla valorizzazione e responsabilizzazione del personale scolastico
E magari, scopriremo che sono più disponibili al confronto i cosiddetti “laici non religiosi”, rispetto a quelli che pure si professano identitari con il rosario in mano.
E chissà che la spesa per la scuola e l’inclusione scolastica non sia finalmente tolta dal “patto di stabilità” finanziaria anche a livello europeo: gli investimenti sulle persone, non sono spesa corrente, ma progetto per lo sviluppo sostenibile: giusto?
Massimo Molteni