Più volte si sono avvicendate qui riflessioni sull’impatto della Pandemia nella nostra vita e nel tempo che seguirà. Non mi riferisco agli effetti misurabili, come quelli sanitari di cui abbiamo notizia ogni giorno, e neppure a quelli economici e sociali (andamenti del PIL, della occupazione, degli scambi, anche in rapporto alle misure protettive e neanche agli effetti sui giovani, sulla povertà educativa, sulla natalità, tutti soggetti a riscontri oggettivi). Mi riferisco agli effetti morali ed anche emozionali, quelli che alterano i progetti di vita, che incidono sulle aspettative. Sono aspetti poco misurabili nell’immediato, ma che vanno a comporre la sostanza della politica. È di questo che è fatta largamente la politica, senza trascurare ciò che attiene alla vita materiale e alle dinamiche misurabili.
Da poco ha avuto inizio l’Anno ignaziano, indetto dalla Compagnia di Gesù, i gesuiti, e che va dal 20 maggio scorso al 31 luglio 2022 (il 31 luglio è S.Ignazio). Questo Anno Ignaziano riguarda un Cinquecentenario. Ma di che cosa?
Ad esempio noi quest’anno celebriamo un Anno dantesco, perché sono trascorsi settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, avvenuta nel 1321. Questa consuetudine non ci aiuta con l’Anno ignaziano, dato che Ignazio di Loyola era nato nel 1491 (un anno prima del viaggio di Cristoforo Colombo verso le Indie che si rivelarono l’America) ed era morto nel 1556.
La vita è fatta anche di date diverse. Il 20 maggio 1521 il giovane ufficiale Ignazio di Loyola (“uomo dedito alle vanità del mondo”, che “trovava soprattutto piacere nell’esercizio delle armi, con grande e vano desiderio di procurarsi fama” scrive di se nell’Autobiografia), impegnato nella difesa della fortezza di Pamplona, assediata dai francesi, fu colpito alle gambe da una palla di cannone (“Dopo che già da parecchio tempo durava il cannoneggiamento, una bombarda lo colpì alla gamba, rompendogliela tutta; e poiché il proiettile gli passò tra le gambe, anche l’altra rimase malamente ferita”, narra Ignazio sempre nell’Autobiografia).
Cadde Pamplona, finì la carriera militare di Ignazio, che dopo due settimane di cure locali fu trasportato in lettiga a casa, dove cominciò una sequenza di interventi dolorosi per una lunga guarigione e una lunga convalescenza. E una conversione, come sappiamo. Dunque di questo si tratta: il Cinquecentenario di una ferita di guerra! Una ferita di guerra, cioè un evento puntuale, qualcosa che accade in un attimo, e che cancella un progetto di vita lungamente coltivato.
Le cronache dei nostri tempi nel nostro paese ci possono suggerire più facilmente esperienze di persone che hanno perso degli arti, sono rimaste parzialmente paralizzate a seguito di incidenti stradali, oppure esperienze di atleti che incorrono in infortuni che escludono un pieno recupero. Nel caso degli atleti non mancano i casi di quelli che proseguono nella forma dello sport paralimpico.
Tuttavia il primo pensiero di chi vive queste esperienze è frequentemente quello di fare il possibile per riprendere la strada interrotta, per trattenere sogni, desideri, obiettivi. Fu così anche per Ignazio. Spesso queste persone si impegnano in sforzi di riabilitazione eroici, che a volte hanno successo. A volte invece dalla propria interiorità, o da circostanze e incontri, prende forma l’intuizione della nuova strada. Il paradigma di Ignazio insegna che la nuova strada non è necessariamente una subordinata, il piano B. A volte è la vera strada maestra, il piano A che non era stato ancora intuito. Una sola cosa è da evitare: restare fermi dove si è caduti, come purtroppo a volte accade a chi si perde in un loop di autocommiserazione o affonda nello scoraggiamento. Quando il nostro progetto viene spazzato via, o anche solo gravemente compromesso, o semplicemente messo in discussione, si apre un tempo di discernimento. È ancora disponibile la strada precedente, anche a caro prezzo, o qual è la strada che ci può accogliere?
Anche noi abbiamo subito una ferita, quella della Pandemia. Anche nel linguaggio intorno a noi sentiamo chi dice che tutto riprenderà come prima e chi dice che niente sarà più come prima. C’è nella riflessione pubblica del Paese qualcosa che va approfondito e chiarito, anche per aiutare le persone a guardarsi intorno e a scegliere in un paesaggio meno nebbioso, con scenari più nitidi e definiti.
I destini individuali e le vicende di grandi comunità seguono dinamiche differenti. Lo smartworking o per meglio dire il LaD, nato dall’emergenza, non scomparirà. Resterà una possibilità di modulazione e non tutti in presenza o tutti a distanza. Il turismo si riprenderà velocemente, ma quello ricreativo riprenderà il suo percorso di crescita, mentre il turismo di affari non tornerà agli stessi livelli. Abbiamo ormai imparato che molte riunioni di lavoro si possono fare bene senza spostarsi, con risparmi sui tempi e sui costi di viaggio.
In quelle strade anche dei centri urbani desertificate dalla chiusura di negozi (a volte provvisoria a volte definitiva) molte saracinesche torneranno ad alzarsi, ma un grande ammodernamento e forse innovazioni sostanziali saranno subentrate (la distruzione potrebbe rivelarsi involontariamente creatrice). La scuola tornerà stabilmente in presenza, perché la socialità è parte integrante della responsabilità educativa, ma la digitalizzazione, acquisita forzosamente e parzialmente, va completata, perfezionata, affinata. Il modello della sanità pubblica cambierà, più lentamente in quei raccordi che richiedono modifiche costituzionali e più rapidamente speriamo nell’allestimento di una medicina del territorio.
La globalizzazione procederà per la sua strada, con qualche reset (non si torna indietro dalla invenzione della ruota e da molte altre cose), ma riprenderemo produzioni che non pensavamo di dover avere in casa e dovremo governarla meglio. Sono pochi esempi, che parlano di un cambiamento non in bianco e nero, ma con modulazioni variabili. Un cambiamento nel quale i singoli si troveranno a volte a poter scegliere, a volte sorpresi dal cambiamento in punti diversi.
Dunque ci sono strade diverse. Alcuni faranno cose nuove, alcuni faranno cose preesistenti in modo nuovo, alcuni faranno cose ancora da inventare. Qual è il discernimento al quale la Pandemia ci chiama?  C’è tuttavia bisogno di una conversione civile. Bisogno di rimettere i doveri accanto ai diritti, e di avere un dibattito sui doveri civici di oggi. Bisogno di senso civico e di forte orientamento costruttivo. Bisogno di tolleranza. Bisogno di un diritto allo studio moderno ed efficace, fondamento della mobilità sociale e del riconoscimento del merito. Coscienza di non essere soli al mondo e che nel mondo dovremo fare la nostra parte. Bisogno di chiudere la forbice di opportunità e trattamenti tra donne e uomini. Desiderio di generare la fiducia e il coraggio propri di una comunità nazionale che riprende un cammino di sviluppo. Attrazione verso un qualche amore per la verità. Queste e altre sono le scelte che devono innanzitutto entrare a far parte del linguaggio della vita pubblica (non solo dei partiti ovviamente) e che valgono in qualunque scenario economico e sociale.
Vincenzo Mannino

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