Premessa: il 6 aprile scorso il premier Draghi si è recato in Libia per il suo primo viaggio all’estero quale Presidente del Consiglio. Insieme al ministro degli Esteri Di Maio, si è incontrato con l’ omologo Abdel Hamid Dbeibah, attualmente capo del governo di transizione incaricato di traghettare il paese nord africano al voto previsto per il prossimo 24 dicembre. Lo scopo era quello di rilanciare il ruolo dell’Italia in Libia, gravemente ridimensionato dalla presenza turca in Tripolitania e da quella russa in Cirenaica, testimonianze ambedue del declassamento strategico italiano.
E’ certo che nel corso del viaggio a Tripoli il premier Draghi debba essersi accorto come in Libia la Turchia conti e sia più forte del previsto. Questa presenza segna per l’Italia una sconfitta strategica, anche per via del riorientamento di Tripoli nel contesto regionale. Prima dell’arrivo di Draghi, tra Libia e Turchia erano stati firmati cinque accordi internazionali. Quando più tardi il governo libico è stato chiamato ad Ankara, ci è andato. Nessuno invece sente più parlare della proposta Conferenza di Roma per risolvere il conflitto interno libico.
L’incidente diplomatico di Ankara: quello stesso 6 aprile, si incontravano ad Ankara il Presidente turco Erdogan e i vertici istituzionali dell’Unione europea, rappresentati dal Presidente della Consiglio europeo, Charles Michel, e da quello della Commissione, Ursula von der Leyen. In precedenza, i leader europei avevano dichiarato che il blocco era pronto “a impegnarsi con la Turchia in modo graduale, proporzionato e reversibile per rafforzare la cooperazione in una serie di aree di interesse comune”.
Scopo del vertice era quello di affrontare una serie di nodi che dividevano Bruxelles dalla Turchia. Quelli che andavano dal dissidio sulle frontiere marittime del Mediterraneo orientale, alla Libia, fino allo spinoso tema dei migranti che Erdogan continua ad utilizzare come minaccia nei confronti dell’Unione. Non ultime, le questioni dei diritti umani e delle differenze di vedute sulla Siria, ove l’Europa non appoggia l’interventismo turco.
Nell’agenda anche progetti di cooperazione economica, sull’unione doganale, sui rapporti bancari, economici, industriali e nel campo dei servizi. Da affrontare anche le norme sui visti per i viaggiatori turchi diretti in Europa.
Vorrei ricordare che nel 2005 la Turchia era stata candidata per l’adesione all’Unione Europea. Alcuni anni dopo, nel 2018, questi negoziati sono stati congelati per via dello scarso rispetto mostrato dal presidente Erdogan per le regole democratiche ed i diritti civili. Sullo stato di questi rapporti, l’Europa si trova divisa: Francia, Grecia e Cipro propendono per una posizione più dura. La Germania, insieme ad altri paesi, si mostra invece disponibile per trovare una via che possa allentare i dissidi.
Un prossimo incontro è da attendersi per questo mese e servirà a valutare l’andamento dei rapporti tra questi alleati che spesso trovano difficoltà ad andare d’accordo. La parte meno facile per Bruxelles è quella di come affrontare il problema dei rapporti con Erdogan senza dare l’impressione di appoggiarlo o di schierarsi dalla sua parte. Il leader turco è un personaggio discutibile, le cui azioni hanno scavato un solco profondo tra il suo paese e l’Unione Europea: la Turchia resta però una nazione importante con la quale bisogna fare i conti, anche se il suo Presidente si mostra ostile verso i nostri valori di pluralismo, democrazia e libertà.
Scesi dalle loro auto di rappresentanza, la von der Leyen e Charles Michel hanno percorso per alcuni metri un tappeto turchese che li avrebbe condotti, una volta saliti alcuni scalini, all’interno del palazzo presidenziale. Ad attenderli e salutarli, il presidente Erdogan. Giunti all’interno, i tre si sono trovati di fronte a due sole poltrone. Il presidente Michel ed Erdogan si sono immediatamente accomodati. La von der Leyen, non senza imbarazzo, è rimasta in piedi esprimendo il proprio sbigottimento. Per rimediare, è stata fatta sedere su di un divano laterale che secondo il protocollo è generalmente riservato ad ospiti di livello inferiore.
Attribuire quest’incidente a qualcuno in particolare è forse difficile. C’è chi pensa che il responsabile possa essere stato lo stesso Presidente Erdogan, il quale così facendo avrebbe voluto umiliare la von der Leyen come rappresentante dell’Unione e come donna. Circa due settimane prima, con un suo decreto aveva fatto uscire la Turchia dalla Convenzione di Istanbul che protegge le donne e condanna le violenze da esse subite.
La Turchia fu il primo paese a ratificarlo. Rinnegandolo, il Presidente turco volle andare incontro alle istanze delle associazioni islamiche per le quali questa convenzione non fa che incoraggiare il divorzio e contribuire alla dissoluzione delle famiglie. Il Consiglio d’Europa definiva questo passo come “sconcertante”.
In merito all’accaduto del 6 aprile, a Bruxelles, invece, c’è chi ha puntato il dito su di una rivalità tra il Presidente del Consiglio europeo e quello della Commissione. Non so se sia vero, ma mi è stato riferito che ad organizzare la parte del protocollo sarebbero stati proprio gli uffici del Consiglio europeo. In questo caso, l’autore dello sgarbo sarebbe il presidente Michel.
Vi è anche la possibilità che si sia trattato di un mero errore burocratico del quale nessuno dei due era al corrente. Per quel che mi riguarda, sia il Presidente Michel che quello turco non si sono mostrati all’altezza della situazione. Avrebbero dovuto cedere il posto alla von der Leyen, liquidare l’episodio con una battuta e far portare un’altra poltrona. Sembra poco credibile che in un palazzo costato quasi un miliardo e mezzo di dollari, e dotato di almeno 1150 stanze, non sia stato possibile trovarne un’altra.
La von der Leyen avrebbe potuto mostrare maggior prontezza di riflessi, avvicinarsi alla poltrona e mettere in imbarazzo i due presidenti sedendosi per prima. Quel che trovo strano è che in un incontro di questo tipo, l’Europa si sia presentata con due esponenti su due auto diverse. Sarebbe più logico per l’Unione farsi rappresentare da una sola persona. In tutto questo l’Europa non ha fatto bella figura e l’immagine della sua diplomazia ne è uscita offuscata.
Quanto accaduto ad Ankara non dovrà più ripetersi e sarà necessario che la cooperazione tra i due presidenti Michel e von der Leyen continui nell’interesse dell’Europa e dei suoi cittadini. Invece che presentarsi separati su due auto di rappresentanza, viaggino invece su una sola: oltre che evitare sprechi, darebbe un’idea di unità, cordialità ed informalità che non potrebbe che far bene all’immagine dell’Unione.
La dichiarazione di Draghi: da quest’episodio della poltrona mancante trae origine la risposta che il premier Draghi ha dato lo scorso 8 aprile durante una conferenza stampa. Egli ha descritto il Presidente Erdogan come un “dittatore”. Queste le sue parole: “Non condivido assolutamente il comportamento di Erdogan nei confronti della presidente Von der Leyen, credo non sia stato appropriato. Mi è dispiaciuto tantissimo per l’umiliazione che Von der Leyen ha dovuto subire. La considerazione da fare è che con questi dittatori di cui però si ha bisogno di collaborare, o meglio di cooperare, uno dev’essere franco nell’esprimere la differenza di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronto a cooperare per gli interessi del proprio paese”.
Non si può essere esperti in tutto. Dov’era il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi? Quando il Presidente americano Biden ha parlato del genocidio armeno non lo ha fatto direttamente in pubblico, ma attraverso una nota diffusa in seguito dalla Casa Bianca.
C’è chi ritiene che se vi è un paese che non possa permettersi il lusso di fare infuriare la Turchia sia proprio l’Italia. Quest’ultima ha in Libia degli interessi che gli altri non hanno e deve perciò rendersi conto che Ankara ha avuto e continuerà ad avere un ruolo determinante in quel paese. Sarà un concorrente economico molto forte e, con tutta probabilità, avrà un ruolo nella formulazione degli accordi bilaterali tra l’Italia e la Libia: finché la Turchia sarà presente, l’Italia deve stare attenta.
La risposta turca: a seguito della dichiarazione di Mario Draghi, veniva convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara e chieste scuse ufficiali. Il vicepresidente turco Fuat Oktay scriveva poi su Twitter: “Condanno le dichiarazioni sfrontate e scandalose del premier Draghi riguardo il nostro presidente che per tutta la sua vita ha fatto gli interessi del suo Paese e della sua Nazione. Si è opposto a ogni forma di fascismo e clientelismo e ha vinto tutte le elezioni con la più grande fiducia da parte del popolo”.
Il capo dell’Ufficio Stampa della presidenza turca definiva Draghi un “nominato”. Il presidente Recep Tayyip Erdogan era stato infatti eletto con il 52% dei voti: “Ha superato i limiti e definito dittatore il nostro presidente. Parole che non trovano posto nella democrazia, pronunciate con uno stile da condannare. Se qualcuno cerca un dittatore, allora guardi alla storia d’Italia”. Il leader ultraconservatore Devlet Bahceli si scagliava contro Draghi, sottolineando che, con il suo discorso, esprimeva “un’ammirazione segreta per Mussolini”.
Una settimana dopo, citando il presidente turco l’agenzia di stampa ufficiale Anadolu riportava le seguenti parole: “La dichiarazione del presidente del Consiglio italiano è stata un atto di totale maleducazione. Prima di dire una cosa del genere a Tayyip Erdogan devi conoscere la tua storia, ma abbiamo visto che non la conosci. Sei una persona che è stata nominata, non eletta”. Ha poi aggiunto che “Draghi ha purtroppo danneggiato” lo sviluppo delle “relazioni tra la Turchia e l’Italia”.
Ulteriori considerazioni: Erdogan ha utilizzato la cosa per portare acqua al mulino del proprio apparato propagandistico. La Turchia sarà la concorrente dell’Italia in Libia e non la si fermerà solamente dicendo che Erdogan è un “dittatore”. Per noi la presenza turca in Libia ha significato una sconfitta enorme. Ci si è fatti estromettere dalla Libia senza batter ciglio ed è a causa di politiche di questo tipo se il potere contrattuale dell’Italia nel mondo è divenuto molto basso.
Senza l’intervento della Turchia – va sottolineato – la Libia per l’Italia era persa: sarebbe doveroso ricordare che se Haftar non ha vinto è solo grazie all’intervento turco che ha salvato al-Serraj.
Va comunque detto che Mario Draghi, arrivato a Palazzo Chigi cose oramai fatte in Libia, ha agito con quel paese in modo meno confuso di come lo si è visto fare da parte dei precedenti governi. Il presidente della Banca Centrale libica ha avuto parole incoraggianti per lui e vi è da augurarsi che lo screzio con la Turchia venga presto dimenticato. Resterà da vedere la questione dei contratti economici firmabili dalla Libia: credo la Turchia si prenderà ciò che più le interessa prima di lasciare il resto agli altri.
Può Erdogan dirsi un dittatore?: è indubbiamente un leader mosso da tendenze autoritarie, un uomo di pochi scrupoli, dal carattere difficile, impulsivo e non privo di aspetti di megalomania.
Va ricordato, però, che all’interno della Turchia vi sono contrappesi, come quelli che vengono dalle città più importanti del paese alla cui guida sono stati eletto sindaci di un partito rivale e di come, malgrado tutto, le istituzioni repubblicane siano solide e resistano. Sono sempre vive e presenti un’opposizione liberale che critica Erdogan, una società civile plurale pronta a mobilitarsi e delle forze democratiche che non esitano a farsi sentire quando necessario: siano di esempio le recenti dimostrazioni svoltesi in numerose città contro l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, ove forte è la partecipazione delle donne.
Riguardo la questione religiosa, non penso si possa obiettivamente parlare di un islamizzazione forzata della Turchia. Quest’ultima è sempre stata musulmana. Quello che si può dire è che con Erdogan vi è stata, ed è tutt’ora in corso, una decisa sterzata conservatrice.
Tra due anni il Paese celebrerà il centenario della nascita della Repubblica. Con questo passo, Mustafà Kemal e i capi dell’epoca hanno voluto cancellare tutte le eredità negative lasciate dall’Impero Ottomano. Ricordiamo anche che nel 1915, in pieno conflitto mondiale, fu perpetrato uno spietato massacro di Armeni che fece da apripista alla successiva politica genocida di Hitler. Nel 1923, a seguito di un tentativo di Venizelos di appropriarsi di parte del Paese, tutti i greci che vi risiedevano furono espulsi.
Non vi è mai stata una vera e propria frattura tra la Turchia di Mustafà Kemal e quella di Erdogan, quanto piuttosto un’evoluzione nel segno di una certa continuità: per ambedue i leader la Turchia doveva essere un paese nazionalista e religioso. Mentre il primo aveva, però, scelto di abbandonare la visione imperiale, il secondo mostra l’esplicita volontà di costruire una sorta di “grande Turchia” e per riuscirvi non esita a sfruttare ogni occasione. Questo attivismo in politica estera non può che infastidire, così come lo fanno gli attacchi brutali agli intellettuali e ai suoi avversari politici, il più delle volte condotti con motivazioni false e pretestuose.
Per terminare, credo che il presidente Erdogan vada visto come il leader di una nazione che, ad un secolo dalla nascita, è ancora alla ricerca di un’identità. Questo serve a spiegare le tentazione e le derive autoritarie di cui si è tutti testimoni.
Altre considerazioni su Erdogan e la Turchia: per meglio capire il personaggio ed il suo Paese, vale la pena notare quel curioso rapporto che lega entrambi agli Stati Uniti. La Turchia ha sempre visto gli americani di buon occhio. Il perché va ricercato nel passato, e più precisamente alla fine del primo conflitto mondiale.
In quel periodo drammatico, al contrario di Gran Bretagna, Francia, Italia e persino Grecia, gli Stati Uniti sono stati i soli a non reclamare neppure un fazzoletto del suo territorio. Ankara è poi entrata presto a far parte della Nato: l’Alleanza ha visto la luce a Washington nel 1949, la Turchia vi fu ammessa nel 1952.
Pur vista come scomoda, la Turchia resta tutt’ora un partner importante per gli americani, soprattutto riguardo le faccende del Medio Oriente, del Caucaso e dell’Asia Centrale. Come aveva detto il premier Draghi, ed in questo caso a ragione, Ankara resta sempre un fattore rilevante del quale non si può non tener conto e quando necessario, cooperare.
Pensare che in Medio Oriente la Turchia, paese non arabo, possa con le sue imprese aver vita facile è un altro errore: vi si trova a rivaleggiare con Egitto e Arabia Saudita e, per motivi storici, gli arabi continuano ad avere pessimi ricordi sul passato della dominazione turca. La crisi siriana è indicativa di questo stato di cose. Riguardo la politica estera di Erdogan, qualsiasi cosa si voglia dire, questa non ha molto a che vedere con quella in atto ai tempi dell’Impero Ottomano.
Resta la domanda: fino a dove vuole arrivare? Come nel caso di Mustafà Kemal, la cui visione era quella di ristabilire il paese per inserirlo nuovamente nel processo delle decisioni internazionali, il leader turco vuole oggi affermare il ruolo della Turchia come attore importante sulla scena mondiale.
Piuttosto, come fanno molti altri, che farneticare sul ritorno ai giorni dell’Impero, è meglio restare con la testa sulle spalle e vedere la Turchia per quello che è: nulla di più che una media potenza. Erdogan è però abile e sfrontato e, non senza cinismo, è riuscito a giocare con destrezza il ruolo di leader di una potenza regionale nel cuore dell’Eurasia e, quando necessario, ha saputo sfruttare tutte le sue alleanze e su tutti i fronti. Non dispone però né dei mezzi necessari né delle forze sufficienti per tradurre in realtà i suoi discorsi, per imporre le sue vedute e realizzare le sue ambizioni.
Malgrado le apparenze e gli screzi, la Turchia non volgerà mai le spalle all’Occidente ed ogni volta che si avvicina a Mosca sa bene che le due nazioni in passato erano rivali, così come sa che ogni volta che cerca di assumere un ruolo in posti come la Siria, la Libia ed il Caucaso, i russi si irritano e ne risentono.
A casa, il presidente Erdogan si deve confrontare con una situazione difficile, irta di sfide politiche, economiche e sociali. A farla breve, per lui lo scopo è quello di restare in piedi e sopravvivere. Per riuscirvi non esita a rafforzare e consolidare la propria base giocando a polarizzare le situazioni, sfruttare le debolezze altrui, sollecitare e far leva sull’orgoglio nazionale, la fede religiosa ed il conservatorismo della parte di popolazione che lo segue e lo vota.
Tutto considerato, egli è alla fine un autocrate che rappresenta una minaccia soprattutto per la quiete, il buon vivere e la prosperità del suo popolo. Quando necessario non esita a fare del paese una prigione. La risposta a tutto ciò è per l’Europa di affrontare unita il suo rapporto con la Turchia: deve presentarsi di fronte ad Erdogan con un programma di lavoro basato su poche proposte, ma molto precise e limitato a fatti che riguardano interessi reciproci.
Di questi tempi i rapporti non sono al meglio, anzi possono definirsi decisamente incrinati. Temo sia improbabile che Erdogan faccia passi avanti nel consolidare il rispetto per la democrazia e i diritti umani, ma Unione Europea e Turchia hanno entrambe bisogno l’una dell’altra.
Per concludere: la dichiarazione di Draghi verrà alla fine dimenticata, così come verrà dimenticato l’incidente sul protocollo con la presidente della Commissione Europea che ne è stato il motivo. Sono entrambi problemi trascurabili, ma un prezzo verrà pagato.
Il presidente Erdogan si trova attualmente in una situazione politica complicata e piuttosto difficile che potrebbe rendere incerta la sua elezione prima delle celebrazioni per il centenario della repubblica turca. E’ ovvio che in simili condizioni troverà arduo affrontare certi problemi: gli sarà infatti indispensabile l’appoggio della destra, dei nazionalisti e dei conservatori per assicurarsi la sopravvivenza politica.
A parte motivi caratteriali, questo comportamento si spiega col fatto che, sia lui che il suo partito, si trovano in questo momento ad avere meno del 30% dei consensi. All’interno, egli spinge per una visione islamica e nazionalista e molto di ciò va visto come un tentativo per sedurre l’elettorato religioso e conservatore: basti ricordare la decisione di riconvertire Santa Sofia in una moschea e la già citata, recente uscita dalla Convenzione di Istanbul.
All’estero, Erdogan propugna una politica aggressiva e di attivismo per fare del suo paese una potenza regionale della quale non si possa non tener conto. Ne sono prova i suoi interventi in Siria, Iraq, Libia, fino al Nagorno-Karabakh, senza menzionare anche una disputa con la Grecia sulle frontiere marittime del Mediterraneo orientale e l’isola di Cipro. A sentirlo parlare, le ambizioni territoriali della Turchia sarebbero inarrestabili e come il resto, anche questo gli serve per garantirsi la tenuta della sua autorità e far leva sui sentimenti nazionalisti del suo elettorato.
Tutto ciò non va a favore della Turchia. A risentirne infatti non sono solo gli investimenti, ma anche i rapporti con l’Europa, la Nato e gli Stati Uniti. E’ necessario rendersi conto che tra questi rapporti e lo stato di diritto vi sono dei legami.
Volgendo lo sguardo ancora più lontano e pur tenendo conto di tutte le difficoltà, sarebbe utile per noi e per Bruxelles portare avanti un dialogo con la Turchia per arrivare un giorno ad un trattato di associazione con l’Unione Europea. La Turchia è un vicino scomodo e potente, poco avvezzo alla democrazia, costretto a confrontarsi con una realtà interna piuttosto complessa. Fa anche parte della Nato, ne possiede il secondo esercito per numero di uomini ed ospita sul suo suolo un’importantissima base americana che custodisce anche ordigni nucleari.
Malgrado la richiesta di provvedimenti per mettere al bando il Partito Democratico dei Popoli Filo-curdi – il terzo in Turchia – abbiamo visto negli ultimi tempi Erdogan adottare un tono più morbido. Il presidente turco si sta mostrando più docile perché ha di fronte a se non pochi problemi interni dovuti in gran parte a forti difficoltà economiche, debito, inflazione e fuga di capitali.
Da realista qual è, ha anche capito che con l’arrivo della nuova amministrazione Biden è in corso un cambiamento di rotta. Washington ha cominciato ad inasprire la sua linea insistendo nel rispetto di quei valori e di quei diritti che l’Occidente considera di primaria importanza.
Vediamo inoltre Ankara giocare su vari fronti con la Russia e tentare in tutti i modi di riaffermarsi all’esterno, ma non credo la si possa considerare un pericolo per l’equilibrio internazionale: è solo una media potenza, i mezzi economici non ci sono e ha dei freni quali gli Stati Uniti e la Nato che non possono che imporgli un certo criterio di comportamento: la vera forza sta ancora nell’Occidente. Serve una Turchia stabile e i nostri interessi devono definire i nostri impegni.
Edoardo Almagià