La scelta di chiamare il nuovo partito d’ispirazione cristiana Insieme non è frutto di sondaggi o indagini di mercato. Nasce dalla riflessione che la crisi della politica (e della democrazia) richiede analisi e programmi appropriati, di cui Insieme intende farsi interprete.
Punto di partenza è la constatazione che la crisi della politica è strettamente legata alla crisi della società. Si deve partire da qui, dai malesseri della società, per poter imbastire qualsiasi progetto d’intervento di natura politica sulla società.
Parto da lontano. In base a consolidati principi di sociologia e psicologia sociale, l’essenza (l’identità) degli esseri umani non è un fatto individuale, quanto una questione sociale. Charles Taylor, filosofo canadese, descrive la relazione sociale in questi termini: «La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni con gli altri».
La crisi odierna è tutta qui. È legata al fatto che i fattori economici e sociali che governano le società liberali sembrano negare ogni senso di socialità. Anche l’Enciclica Laudato Si’ osserva: «La crescita degli ultimi due secoli non ha significato in tutti i suoi aspetti un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita. Alcuni di questi segni sono allo stesso tempo sintomi di un vero degrado sociale, di una silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale».
In verità, nei paesi dell’Occidente, che pur elencano nelle loro Costituzioni ricchi cataloghi di valori e di principi, nella pratica, danno prova di essere soprattutto una comunità d’interessi, spesso confliggenti tra loro: un insieme di egocentrismi individuali e nazionali, che negano ogni senso di comunità. Questo succede perché i valori, che pur incarna, non sono interiorizzati e manca, o è troppo debole, il senso di appartenenza alla comunità.
La globalizzazione ha complicato il quadro, per la dimostrata capacità di poter livellare le diversità sociali e culturali, scatenando le reazioni fondamentaliste più esasperate, di carattere nazionale, territoriale, di natura etnico-religiosa. Per contrastare questi fenomeni, servono nuove forme di reciproco riconoscimento sociale, che possano offrire nuove forme di convivenza, spendibili anche in ambito interno e internazionale.
Allo scopo serve una rinnovata pedagogia che, partendo dalla valorizzazione delle istituzioni più basse, famiglia, ambiti associativi, educativi e locali, possa educare al senso di comunità. Su questa traccia, i legami che s’instaurano all’interno delle comunità minori (locali), possono rappresentare il primo gradino per far crescere una diversa coscienza morale generale.
«Non impariamo ad amare l’umanità in generale, ma nelle sue espressioni particolari», afferma Sandel. «Il nostro sentimento di solidarietà è più forte quando colui cui è rivolto è considerato ‘uno di noi’, dove ‘noi’ designa qualcosa di più piccolo e geograficamente limitato dell’intera razza umana» (Rorty). In questa stessa prospettiva, il filosofo e politologo francese Pierre-André Taguieff afferma che la comunità può fungere da mediatrice di universalità.
La riflessione è molto semplice, forse banale, ma i principi, per valere devono essere praticati, a partire dalle forme associative minori. Non basta dichiararli e santificarli nell’ambito universale. Pericle nel discorso agli ateniesi ammoniva: «Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore».
Molti valori liberali hanno riconoscimenti giuridici e costituzionali elevati. Non hanno però gambe per camminare da soli, se non sono sostenuti da ragioni pre-politiche, di natura etico-morale, qualche volta religiosa. Per questo, serve un nuovo senso di corresponsabilità nazionale. Qualcuno invoca un nuovo patriottismo, qualcun altro nuovi modelli sociali. Per tutti, vale quanto scritto nell’art. 2 della Costituzione: assieme ai diritti vanno recuperati i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Guido Guidi