Il Governo sta affrontando un percorso, per forza di cose di non breve momento, finalizzato a sottrarci da una ormai inaccettabile, pericolosa ed avvilente dipendenza energetica dalla Russia. E fa bene a porre allo studio piani di razionamento e di distribuzione programmata dell’energia, destinata ad alimentare la macchina produttiva del Paese, a garantire i servizi pubblici essenziali e contenere quanto più possibile i disagi che potrebbero ricadere sulla vita di ognuno. Altrettanto, fa bene a renderne avvertiti fin d’ora i cittadini, che, appunto, potrebbero essere chiamati – augurandoci che così non sia – a vivere sulla propria pelle l’impatto quotidiano della guerra d’Ucraina.

Ha ragione Draghi quando si pone in una prospettiva finalizzata a favorire una decisione concorde dei paesi europei, diretta a bloccare gli acquisti di petrolio e gas dalla Russia. E’ vero che la Russia non va spinta idealmente al di là degli Urali, schiacciata sul versante orientale della placca continentale euroasiatica, regalata alle grinfie suadenti della Cina. Ma è altrettanto vero che non possiamo affrontare le sfide che aspettano, nei prossimi decenni, il Pianeta complessivamente inteso, sul presupposto che il diritto internazionale sia un “optional”, una sorta di variabile dipendente dall’umore dell’autocrate di turno.

Non è accettabile che il quadro delle relazioni internazionali sia, come dire?, a sua volta “liquido”, esposto alla imprevedibilità di aggressioni, come quella cui stiamo assistendo, in un certo senso, se non asseverate, ritenute comunque compatibili e riassorbibili in un equilibrio complessivo sempre in bilico, ma, in qualche modo, tale da tollerare ogni deviazione.

La politica delle sanzioni va portata fino in fondo. Dev’essere chiaro che il mondo libero non arretra, non fa sconti e non accetta compromessi con l’aggressività criminale di Putin. Il che non significa sottrarsi ad ogni tentativo di soluzione diplomatica della crisi, bensì chiarire che questa, in nessun modo, passa dall’ umiliazione del popolo ucraino o dallo smembramento del suo territorio. Del resto, è legittimo ritenere – o, almeno sospettare – che le mire di Putin vadano oltre l’Ucraina e riecheggino i fasti dell’Impero sovietico. Con buona pace delle destre sovraniste e della dabbenaggine con cui riconoscono il loro “campione” in chi oggi rivendica il blasone di quella loro radicale antitesi di stampo comunista. Intanto, oggi Putin non ha mancato di celebrare il sessantunesimo anniversario del primo volo spaziale di Yuri Gagarin.

Insomma, il dilemma posto da Draghi tra “pace e condizionatore” è stato considerato da molti alla stregua di una battuta ed è, invece, tutt’altra cosa. Non è affatto la banalizzazione di un tema complesso, ma, in fondo, una maniera forse sbrigativa, ma talmente sintetica ed immediata, da risultare efficace nel porre una questione inaggirabile e, per molti aspetti, decisiva, nella prospettiva di quel “nuovo modello di sviluppo” tanto declamato, quanto assai poco definito, anche perché, a sua volta, implicherebbe, se mai, nuovi costumi e differenti stili di vita. Di fronte ai quali, più o meno consapevolmente, recalcitriamo.

Occorre qualche sacrificio o almeno la fatica di disincagliarci da un abito mentale che ha volentieri delegato quelle “magnifiche sorti e progressive” – di cui già Leopardi, cantandole, pur dubitava e che noi, al contrario, agogniamo – al
potere esondante della tecnica, considerato in sé e di per sé “necessario”, cioè automatico ed inevitabile. Ci siamo volentieri lasciati cullare dall’onda carezzevole dell’attesa di un progresso considerato il filo conduttore di una storia finalmente sottratta all’oscurantismo delle fedi ed “illuminata” dalle ragioni della ragione, che finalmente ne può dare compiutamente conto. Siamo caduti, invece, in una cervellotica declinazione ideologica del progresso di cui oggi, da più parti, ci viene richiesto il dovuto.

La crisi ambientale e le paurose diseguaglianze – cioè lo sciupio, lo scarto di risorse umane, ancor peggio che di quelle ambientali – e poi la pandemia e poi la guerra. Siamo talmente incalzati dagli eventi che la nostra attenzione, come sarebbe nella sua disposizione naturale, non riesce a cogliere se vi sia o meno un fattor comune sia sul piano delle cause, sia su quello degli effetti.

Ambiente e diseguaglianze accresciute nel tempo, poi la pandemia e la guerra, tutto concorre a spingerci verso un’importante riconsiderazione dei paradigmi che hanno fin qui contraddistinto la vita delle nostre società a sviluppo maturo. La questione è d’ordine politico. Ma risale, a monte, a un dato di carattere culturale e civile, difficile da rimuovere.

Domenico Galbiati

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