Nell’intero Occidente e in Italia in particolare, l’opinione pubblica è disorientata a fronte dei cambiamenti in atto. Cambiamenti che investono anche il modo di pensare, i valori e riferimenti politici e ideologici.

A esprimere preoccupazione è specialmente quel mondo liberal-progressista che fino a ieri aveva improntato del proprio pensiero le società occidentali. Un vento reazionario, ci dicono costoro, ha preso a soffiare in Europa e nell’Occidente minacciando i traguardi e i diritti conquistati e mettendo in discussione la modernità stessa. Con il Sessantotto, la modernità aveva fatto palesemente ingresso in ogni ambito sociale con un messaggio libertario: tutti i “valori” conservatori (riassunti in Dio, Patria e Famiglia) sembravano destinati a finire in soffitta per rimanerci definitivamente. Così quel futuro radioso ventilato dagli illuministi e fatto proprio da ogni progressista sembrava diventato prossimo a realizzarsi compiutamente: piena libertà individuale, dissoluzione di ogni legame comunitario (famiglia compresa), cosmopolitismo, trionfo della razionalità, della scienza e della tecnica, progressivo affermarsi del benessere, e via dicendo.

Oggi, invece, tutto ciò sembra essere messo in discussione. Un fatto inspiegabile per taluni se non facendo ricorso, per motivarlo, a un improbabile ritorno del fascismo. Invece bisognerebbe cercare di capire se quanto accade sia veramente un riflusso reazionario dettato solo dalla paura del futuro e di un mondo che la globalizzazione sta mutando nel profondo o se si tratti di qualche cosa di più complesso. In materia, è sbagliato sopravvalutare il ruolo dei populisti e dei sovranisti, perché essi sono un termometro di questo cambiamento, non la sua causa. Dobbiamo pertanto portare il discorso sulla modernità.

Ho più volte avuto modo di citare prestigiosi intellettuali, sociologi e filosofi che, pur riconoscendo i traguardi positivi raggiunti dalla società attuale, hanno espresso preoccupazione sul percorso della modernità. Infatti, in essa, sono cresciute le opportunità per un’esistenza gratificante, ma, di pari passo, sono aumentati i pericoli e i disagi del suo lato oscuro, intravisti già in passato, ma sempre minimizzati.

Viviamo nella “modernità liquida”, un’epoca che ha prodotto l’atomizzazione della società, che ha generato individualismo e l’edonismo, prefigurando un mondo di monadi tese alla gratificazione immediata.

Tra le persone, si manifestano segnali di sofferenza per la perdita di riferimenti, per l’isolamento e la solitudine in cui vivono e per il venir meno di sostegni materiali e morali su cui un tempo si poteva far conto. L’uomo, invece di essere diventato un soggetto capace di decisioni autonome, è sempre più condizionato da poteri lontani, da quell’oligarchia al vertice della società occidentale che controlla i media, la pubblicità, e influenza quanto viaggia in rete. La stessa società ha perso la capacità di effettuare scelte autonome essendo sottomessa alla dittatura dei mercati finanziari, alla mano invisibile dell’economia, nonché alle logiche di sviluppo imposte dalla tecnoscienza.

Anche la natura si ribella allo sfruttamento indiscriminato a cui la sottopone il dominio dell’uomo moderno: le modificazioni climatiche incidono negativamente e sempre più lo faranno sugli esseri viventi, uomo compreso; assistiamo all’estinzione di un numero enorme di specie vegetali e animali; l’inquinamento di terre e mari sembra inarrestabile. La stessa natura umana è minacciata da una invasiva tecnologia che non accetta limiti e che mira a prendere il controllo della evoluzione della specie Homo sapiens per farne un Homo tecnologicus o addirittura un Homo deus. Lo sviluppo di intelligenze artificiali (secondo il fisico Stephen Hawking, recentemente scomparso) metterà in circolazione macchine di natura tale da non essere controllabili dall’uomo, e quindi in grado di metterne a rischio l’esistenza.

Di fronte ai dubbi sulla modernità e alla messa in evidenza dei suoi aspetti negativi, c’è una parte del mondo liberale e, soprattutto, di quello economico, che li minimizza: altro non sarebbero che gli inevitabili disagi prodotti dalla distruzione creativa che caratterizza lo sviluppo: si demolisce il vecchio superato per costruire il nuovo più funzionale. A lamentarsi dei tempi attuali, sono i nostalgici, incapaci di cogliere i vantaggi della modernità e di adattarsi ad essa acquisendo le necessarie competenze.

Tuttavia, anche in questo campo, non tutti chiudono gli occhi. Jurgen Habermas, liberale, convinto sostenitore del progetto illuminista, prendendo atto che da qualche tempo non tutto va secondo le attese, parla di una “modernizzazione aberrante”, denunciando che i cittadini delle società liberali benestanti si stanno trasformano in individui chiusi in se stessi, attenti solo al proprio interesse e incapaci di farsi carico della collettività. Con tale definizione, sembra voler dire che il cammino già indicato dagli illuministi è valido, ma qualche cosa di sbagliato è intervenuto, strada facendo, per far deragliare il treno del progresso.

È questa un’opinione diffusa nel mondo progressista. Si cerca di capire che cosa non è funzionato. Molti ritengono che si tratti solo di un difetto di comunicazione da parte dell’élite liberale che, nei tempi più recenti, non sarebbe stata capace di illustrare alle classi popolari le conquiste realizzate. Altri vanno più a fondo facendo un’autocritica per non aver preso in considerazione (ponendovi riparo con opportuni ammortizzatori) le ricadute negative delle crisi sociali che sempre accompagnano le transizioni da un assetto superato a uno nuovo e innovativo, transizioni che inoltre debbono essere in qualche misura governate.

Ma Anthony Giddens (Le conseguenze della modernità) ci dice che non è così: non si tratta di errori. Il difetto sta nel manico. L’illuminismo era convinto di poter comprendere e governare il mondo e la società. Cercava certezze fondate sulla ragione con cui sostituire i dogmi e le tradizioni. Al contrario, la modernità radicale è caratterizzata dalla scoperta che niente può essere conosciuto con certezza e che la storia è priva di ogni finalismo. A determinare il carattere imprevedibile della modernità, non sono stati i difetti di progettazione e gli errori degli operatori, entrambi inevitabili. Sono state essenzialmente la complessità dei sistemi moderni e la riflessività del sapere sociale. La complessità dei sistemi e delle azioni che costituiscono la società mondiale (così come accade per il mondo naturale) fa sì che le conseguenze dell’attività umane nel loro complesso non possono mai essere previste fino in fondo. La riflessività (simile al principio di indeterminazione in fisica) produce la circolarità del sapere: i risultati delle indagini scientifiche e delle analisi sociali escono dalla sfera intellettuale in cui sono nati per entrare nella società provocando in essa cambiamenti; questi rientrano nell’ambito intellettuale modificandolo a loro volta, in un gioco senza fine. Il nuovo sapere (idee, teorie, scoperte) non rende il mondo sociale più trasparente, bensì ne altera la natura aprendo nuovi orizzonti non previsti.

Di conseguenza, ci dice Giddens, vivere nella modernità è come viaggiare su un bisonte della strada lanciato in una corsa folle. Questo bisonte è un mostro di enorme potenza che collettivamente, come esseri umani, riusciamo ancora in qualche modo a governare, ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo e di andare a schiantarsi (penso al riscaldamento climatico se non sarà bloccato o a una guerra nucleare). Non saremo in grado di controllare la rotta e la velocità del mezzo fintantoché perdureranno le istituzioni della modernità: in particolare l’imperativo dell’accumulazione capitalistica, l’industrialismo nelle forme attuali, la tecnoscienza mossa dalla sola razionalità strumentale, il culto del mercato come unico regolatore, il rifiuto del limite in ogni ambito.

Di fronte alle contraddizioni dell’attuale sistema globale, ai rischi intravisti e alle disparità di benessere e di poteri che genera, sono nati e nasceranno movimenti di opposizione. Già a fine Novecento, si è levata forte la protesta degli ecologisti e dei pacifisti, si sono affacciati alla ribalta i no-global e i gruppi contro-culturali, movimenti che contestano singoli aspetti del processo di modernizzazione. Oggi è la volta delle forze populiste (facenti leva sui soccombenti nella transizione in corso) e sovraniste (che contrastano una mondializzazione omologante, espressione della modernità ultima). Tra i contestatori del modello economico-sociale vigente, taluni sembrano vagamente intuire l’approssimarsi della fine di un’epoca, ma non sanno individuare un cammino da intraprendere: si limitano a registrare la direzione e la velocità del vento nuovo che soffia.

Tuttavia, possono essere definiti reazionari (nel senso che questo termine ha assunto negli ultimi 2-3 secoli) quanti contestano aspetti della modernità (globalizzazione, cosmopolitismo, economicismo, ecc.) e talora si richiamano ad alcuni valori del passato di natura comunitaria? Credo sia sbagliato leggere il presente come uno scontro tra i sostenitori del progresso e un ritorno dell’oscurantismo reazionario. Azioni, reazioni, sintesi innovative sono momenti dei processi dialettici che contrassegnano la storia e in particolare le fasi di transizione.

Tutto sta cambiando e tutto è messo in discussione, ma, ci dice Giddens, è possibile identificare i contorni di un ordine postmoderno se la folle corsa del bisonte non avrà esiti drammatici. Certamente occorrerà mettere limiti all’accumulazione capitalistica che non può protrarsi all’infinito non essendo autosufficiente in termini di risorse. Limiti andranno posti in molti altri ambiti in rapporto alla finitezza del nostro pianeta e dei mezzi materiali disponibili. Per evitare rischi seri e irreversibili, dovrà essere riesaminata la logica stessa di uno sviluppo scientifico e tecnologico inarrestabile reintroducendo problematiche morali nel rapporto ormai prevalentemente strumentale tra esseri umani e ambiente creato. Le istituzioni moderne dovranno essere cambiate radicalmente. Nel mondo postmoderno, la sfera locale riprenderà spazio intrecciandosi in maniera complessa con quella globale. Ciò tenderà a riportare l’attenzione su aspetti della vita che richiamano alcuni tratti della tradizione: fra questi, si potrà riscontrare una qual certa rinascita del ruolo sociale della religione. Ne conseguirà una nuova consapevolezza di un universo sociale soggetto al controllo umano e un senso di rafforzata sicurezza.

Questa prefigurazione di alcuni tratti di un possibile mondo postmoderno, prospettata da Giddens, mi ha fatto pensare, come esempio, sia pure in un ambito assai limitato, a quelle iniziative di Terra Madre, creatrici di eventi di ricaduta mondiale che raccolgono esperienze e contributi di varie culture e provenienze. Tuttavia, le proposte che ne scaturiscono sono sempre ancorate a luoghi ben definiti, e intendono riproporre e rivitalizzare esperienze del passato e competenze tradizionali, coniugandole con un’innovazione compatibile con la salvaguardia del pianeta e una dimensione umana del vivere.

Purtroppo, temo che le cose andranno altrimenti rispetto a questo scenario. Il rapido procedere e l’intrecciarsi delle varie criticità che affliggono il presente (riscaldamento climatico, inquinamento, esaurimento delle risorse, crescita demografica esplosiva in alcune parti del mondo, migrazioni fuori controllo, disoccupazione strutturale, tecnologie disumanizzanti, indebolimento dei legami interpersonali e del capitale sociale) imporranno soluzioni emergenziali che sempre comportano pesanti sacrifici, sofferenze, rinunce.

E se – come accade quando un paese è in guerra – i cittadini non sapranno farsene carico e consapevolmente mobilitarsi per affrontale, possono condurre a forme di governo autoritarie.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte

Immagine utilizzata: Pixabay

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