Nei giorni a scorsi si è tornati a parlare di popolarismo. A livello europeo e nazionale. Come accade da tempo, si sono riproposti degli equivoci, delle criticità, ma anche delle prospettive. Quelle che hanno portato Papa Francesco a cercare  di mettere un po’ d’ordine, almeno a livello concettuale, e a sollecitare una riflessione sul metodo e sui contenuti che il popolarismo comporta.

Si tratta di uno di quei termini della politica, preminentemente proprio della storia e della tradizione della cultura e dell’esperienza europea, cui si richiamano tante organizzazioni. Così tante, e in paesi molto diversi l’uno dall’altro, che alla fine, rischia di essere un ombrello sotto cui provano a ripararsi in tanti. Inevitabile, l’immediato riferimento al Partito popolare europeo che l’esperienza ci dice quanto sia variegato. Al punto di correre il rischio di costituire un’insegna generica più che un insieme organico e coerente. Non solo in Italia, alla fine, quella insegna viene utilizzata in maniera riduttiva, e talvolta fuorviante, da parte di chi finisce per far prevalere la logica dello schieramento invece che dei contenuti. Ciò vale soprattutto alla vigilia di ogni campagna elettorale. E così, in vista delle prossime europee la cosa si ripropone.

Sono oramai lontani i tempi in cui la politica era soprattutto confronto tra pensieri. E i punti di riferimento del popolarismo erano quelli di personaggi, in gran parte cattolici, che facevano discendere il loro pensare, ed agire, in connessione diretta con la Dottrina sociale della Chiesa cattolica. Parliamo di De Gasperi, Adenaeur, Moro, Martens, solo per citarne alcuni.

La Dottrina sociale della Chiesa, però, è un patrimonio dei soli cattolici e non delle altre confessioni cristiane. E questo spiega perché, soprattutto dopo l’unificazione della Germania, che ha fortemente influito anche sulle caratteristiche proprie della Dc tedesca, non a caso passata da Helmut Kohl, cattolico, ad Angela Merkel, luterana, e a Ursula von del Lyen, anch’essa luterana osservante, si sia assistito all’accentuazione più dei caratteri del moderatismo conservatore piuttosto che quelli del solidarismo popolare.

Papa Francesco ha colto l’occasione, pur essendo ristretto nel suo letto d’ospedale al Gemelli, per inviare un messaggio a popolari europei riuniti a Roma e rinfrescare un po’ a tutti, così, la memoria.

Francesco ha ricordato l’importanza del “pluralismo” che, però, non può far dimenticare la necessità di tenere conto di “alcune questioni in cui sono in gioco valori etici primari e punti importanti della Dottrina sociale cristiana”, su cui “occorre essere uniti”.

E’ evidente l’importanza di un messaggio che supera la divisione finora esistita, in particolare tra i cattolici italiani,  tra “quelli della morale” e “quelli del sociale”. Comodo alibi utilizzato, a destra come a sinistra, per far diventare preminente la scelta della parte in cui collocarsi all’interno della logica del bipolarismo, invece che curare i contenuti. E questo, è bene ribadirlo, riguarda chi parlando di aborto e di altre questioni etiche rilevanti finisce per imbarcarsi con quanti mettono in pratica politiche antipopolari, solleticano l’egoismo sociale, favoriscono il l’ampliarsi delle disuguaglianze sociali, invece di contrastarle vigorosamente. All’opposto, vi sono quelli che danno rilevanza più all’impegno sociale e sorvolano sul fatto di  far parte di uno schieramento che sulla grande questione del senso della Vita finisce per confluire in un individualismo che pure presenta altre forme di “egoismo”. Il risultato di trent’anni condotti in questa  maniera è stato quello che si è contribuito all’allargamento delle povertà e al ridimensionamento del ceto medio e, al tempo stesso, a raggiungere scarsi, se non scarsissimi risultati sul quelle questioni etiche che riguardano la Persona, e le sue relazioni, e la famiglia.

Contro l’opportunismo che a lungo ha orientato, ed ancora orienta, consistenti parti del mondo cattolico interessato alla politica, Papa Francesco è stato molto chiaro e netto: “Il politico cristiano dovrebbe distinguersi per la serietà con cui affronta i temi, respingendo le soluzioni opportunistiche e tenendo sempre fermi i criteri della dignità della persona e del bene comune”.

Inevitabile il richiamo alla Dottrina sociale della Chiesa da vivere nella sua interezza e non certamente cogliendone solo quel che giustifica un possibile camaleontismo politico. Francesco ha così meglio precisato: “Pensiamo, ad esempio, ai due principi di solidarietà e sussidiarietà e alla loro dinamica virtuosa. Ci sono aspetti etico-politici, legati ad ognuno di questi due principi, che voi condividete con colleghi di diverse appartenenze, i quali accentuano rispettivamente o l’uno o l’altro; ma l’intreccio dei due, il fatto di attivarli insieme e farli funzionare in maniera complementare, questo è proprio del pensiero sociale ed economico di ispirazione cristiana, e quindi è affidato particolarmente alla vostra responsabilità”.

Anche sull’Europa, Francesco ha invitato a ritrovare ” valori alti, e una visione politica alta” che punti alla definizione di ” un’unione dove tutti possano vivere una vita a misura d’uomo, fraterna e giusta”. Tra le tante sfide indicate, che riguardano l’Europa, Francesco ha ricordato specificamente quella posta dalle migrazioni e quella delle cure del pianeta da affrontare sulla base di un grande principio ispiratore: “la fraternità umana”.

Un discorso che necessita davvero di pochi commenti in una stagione in cui anche molto popolarismo europeo, e italiano, ha smarrito la forte tensione solidale per sposare appieno gran parte di una politica di natura liberista, progressivamente divenuta connivente con la finanziarizzazione dell’economia. Le conseguenze sono state quelle prodotte da una cieca politica di austerity che ha finito per infliggere un grave colpo alla credibilità del processo europeo, oltre che far crescere la distanza tra i pochi sempre più ricchi e i troppi sempre più in difficoltà.

Nei giorni scorsi abbiamo sentito delle grandi manovre che taluni dirigenti popolari europei hanno dispiegato per ulteriormente far diventare tout court il popolarismo una faccia del conservatorismo. I sopra citati padri europei si saranno agitati nelle loro tombe. In Italia si è addirittura parlato, ed è un ritornello in voga da tempo, di far entrare a far parte del Ppe sia Giorgia Meloni, sia Matteo Salvini. I due dopo aver nicchiato un po’, hanno negato questa possibilità. La prima, presa dalla passione per i “Vox” e le destre ungheresi – polacche. Il secondo, dalla consolidata alleanza con quella destra che trova nella Le Pen l’espressione più conosciuta a livello internazionale.

La scomparsa di Silvio Berlusconi rende ancora più acuta la questione della presenza italiana nel Ppe.

L’idea di imbarcare sia la Meloni, sia Salvini è del resto giustificata solo del fatto che in occasione delle prossime elezioni europee c’è chi pensa che dalle urne esca una maggioranza conservatrice in grado di rovesciare la linea finora seguita lungo una sostanziale intesa tra popolari e socialisti.

Nel caso Meloni e Salvini appare evidente come puntino ad un rigurgito di ideologismo mentre sono comunque impegnati, più che altro, a a misurare le loro singole forze sul piano dei numeri elettorali.

Alle europee si andrà sostanzialmente in ordine sparso. Giacché si tratta di un appuntamento che per sua natura, con la presentazione di singole liste e con il voto di preferenza, non dà molto spazio a quel giochetto delle coalizioni che mette insieme cose che stanno insieme solamente su di un piano generale e per garantirere una vittoria elettorale e il potere.

Più che mai, dunque, emerge in Italia il problema della presenza e del ruolo del popolarismo. Ma che non sarà mai risolto se sarà affrontato continuando a seguire i vecchi paradigmi della vecchia politica e dei vecchi modelli economici e se si continuano ad ignorare le grandi trasformazioni sociali in corso.

Esiste una grande area da precisare e riorganizzare. Tagliata completamente fuori da quando il bipolarismo ha semplificato, e impoverito, il sistema politico italiano. Una gran parte di questa area emarginata è quella, appunto, che si rifà all’esperienza popolare e democratico cristiana. Ma ciò vale per tante altre forze laiche, come quelle socialiste e repubblicane.

La reazione a questa emarginazione è stata la cosiddetta diaspora e, poi, seguita in maniera sempre più dirompente dall’astensionismo. La diaspora non è servita proprio a niente. Se non ad assicurare un po’ di posti in Parlamento a chi si diceva alfiere di quel patrimonio, ma con una scarsissima capacità d’incidere in termini reali. Anche sui temi sociali. Per non parlare delle cosiddette questioni eticamente sensibili. La mancata applicazione di tutta la Legge 194 ne costituisce un classico esempio.

Ridimensionati nella sinistra e ridotti a fare la ruota di scorta di una destra che non sempre mantiene neppure le promesse fatte in campagna elettorale su temi etici importanti, abbiamo registrato da tempo il diffondersi dell’idea di lavorare alla creazione di un’area popolare. Quella che nei nostri intendimenti dovrebbe essere caratterizzata dall’autonomia, intesa soprattutto come capacità di presentare al Paese un’altra idea di sviluppo, di riscoprire il senso della solidarietà e della Vita senza frattura tra la dimensione sociale e quella etica. Caratterizzata anche da una volontà trasformativa e, quindi, progettuale. Non solo di natura meramente dichiarativa e, certamente, non solo condizionata dall’appiattimento sulle mere logiche di schieramento. Questo non sarebbe trasformare, ma solo acconciarsi ad una realtà che, invece, necessità profonde mutazioni. Infine, c’è bisogno di facce e di immagini nuove. Credibili quando parlano dell’impegno per le famiglie, i giovani, i gruppi sociali intermedi.

E’ inevitabile, visto l’approssimarsi dell’appuntamento delle europee del prossimo anno, il nascere di una spinta di natura prevalentemente organizzativistica ed elettorale. Ma può il popolarismo ridursi solo a questo e non provare ad ardire di costruire qualcosa di più forte, consistente e duraturo?

 

 

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