Il “cattolicesimo politico” è stato definito nel “Codice di Camaldoli”, distillato e sintesi dell’omonimo Convegno del 17-23 luglio 1943, cui seguì “Idee ricostruttive della Democrazia cristiana” di De Gasperi del 26 luglio 1943. Vi si traccia a grandi linee il profilo di uno Stato democratico.
Questa piattaforma avrà una conferma dottrinale definitiva nel Radiomessaggio natalizio di domenica 24 dicembre 1944 di Pio XII “ai popoli del mondo intero”. Il Papa fa l’elogio della democrazia: “Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l’attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l’avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie”.
Con ciò la Chiesa traccia un confine netto tra dittatura – oggi diremmo “autocrazia” – e democrazia. La quale, appunto, “può sindacare e correggere l’attività dei poteri pubblici”, l’autocrazia no. Il cattolicesimo politico nasce qui. Il cattolicesimo cessava così di essere è “un fenomeno sorto come controcultura in reazione al protestantesimo, al modernismo, al liberalismo, con simpatie verso i regimi autoritari”, come sottolinea P. Thomas Halik, filosofo e teologo ceco.
“Democrazia”, non solo perché adottava i meccanismi istituzionali della democrazia liberale di origine protestante – di cui fino ad allora aveva proprio perciò diffidato -, ma, soprattutto, perché vi poneva alla base la persona, la sua realizzazione nella famiglia, nei corpi intermedi e nella società civile, rispetto alle quali lo Stato doveva svolgere una funzione sussidiaria.
Non si può dire che la DC post-degasperiana sia rimasta integralmente fedele a questa impostazione. Le crescenti domande di Welfare hanno alimentato uno statalismo crescente. Mentre lo Sato politico – il Governo in primo luogo – si è indebolito, lo Stato amministrativo burocratico è diventato onnipervasivo.
Negli anni ’90 la DC è finita. Nel gennaio del 1993 Martinazzoli aveva proposto una Camaldoli 2, che doveva trovare uno sbocco nell’Assemblea programmatica costituente del 23-26 luglio e nella fondazione di un nuovo Partito popolare. Non bastò a bloccare il processo di frammentazione. Ma non fu la fine della cultura del cattolicesimo politico. Se una parte si illuse di trovare in Forza Italia o persino nella Lega una zattera di sopravvivenza, un’altra parte si illuse di trovare un nuovo approdo nel Partito democratico, alla cui fondazione partecipò il 14 ottobre 2007.
L’aggettivo “democratico” pareva incorporare una sintesi più alta sia della cultura politica della sinistra sia di quella del cattolicesimo politico. Il progetto è fallito. E non certo perché il PD ha gettato alle ortiche la “vocazione maggioritaria” e, perciò, le primarie. E’ fallito, perché la cultura politica comunista era inutilizzabile e perché i suoi epigoni non sono stati capaci di elaborarne un’altra. Il dopo-PCI è rimasto a corto di intellettuali in grado di compiere l’operazione. Attorno a Craxi e a Mondoperaio si era coagulato un gruppo di intellettuali, che o provenivano dalla rottura PCI-PSI del ’56 e/o attingevano al filone del socialismo riformista e liberale, capaci di aprire nuove strade al post-comunismo. Ma furono messi al bando. E se qualcuno è stato “recuperato”, ha sempre sofferto dello stigma originario. Il caso di Giuliano Amato è il più clamoroso.
Che cosa ha tenuto insieme, fino ad ora, questo quid, che si chiama PD? L’inerzia ideologica dell’elettorato storico della sinistra – mantenuto pigramente dal suo partito al riparo di vecchi miti, che però nel 2008 garantiva ancora 12 milioni di voti, oggi solo 5.355.086 – e la costante presenza al governo, dal 2011, salvo l’interruzione 2018-19. Pigrizia ideologica e gestione del potere.
In cosa consiste, ora, la cultura politica post-comunista? Quella cultura della “sinistra moderna” che, secondo Franceschini, sarebbe rappresentata da Elly Schlein? E’ un pot pourri: nostalgici del ’17 leninista, comunisti libertari, pacifisti totali, antifascisti militanti, cultori dell’asterisco, anarco-libertari, adoratori della dea Terra, profeti del complotto ordoliberista mondiale, “magistrati-Basij”, armati di codici per la difesa della morale pubblica…
Al momento nessuno dei candidati alla segreteria pare in grado di operare una rottura epistemologica o, come dicono, un cambio di paradigma. Le botteghe degli intellettuali sono state chiuse, i canali di conoscenza e di scorrimento tra partito e società sono senz’acqua. Quali criteri di selezione del personale politico sono invalsi, in questi anni, i social e i sondaggi, le sensazioni e le emozioni. La doxa ha preso il posto dell’episteme.
Così anche i “cattolici politici” del PD si sono divisi. Qualcuno punta su Stefano Bonaccini, nel nome di un neo-laburismo cattolico. Nella dottrina sociale della Chiesa, il cui arco va dalla Rerum Novarum del 1891 alla Centesimus annus del 1991, il lavoro è fondamento della dignità umana e partecipazione alla perenne creazione del mondo. E’ la condizione umana come tale. E’ una base un po’ troppo grande per costruirci sopra un partito, soprattutto se non esiste più una classe operaia, e perciò non esiste più un sindacato unitario, che si trasforma in partito, eleggendo i propri rappresentanti in Parlamento, come accadeva per il laburismo inglese e, parzialmente, per la socialdemocrazia tedesca.
Quale sbocco, dunque, per il cattolicesimo politico? L’intuizione degasperiana del 1948 fu quella di incardinarlo in un’alleanza politica organica con le forze liberali e social-democratiche del Paese. Questa alleanza gli consentì di resistere ai tentativi di Gedda e di parte del Vaticano di fare della DC “un partito vaticano” e di costituire un governo “veramente cattolico”. Può quella intuizione essere un suggerimento per il futuro? Forse sì. Alla sua base sta la centralità del cittadino come persona e come individuo. Da questo teorema seguono conseguenze rigorose di schieramento e di programma su fisco, educazione e istruzione, giustizia, istituzioni…
Al momento le conseguenze non compaiono nella piattaforma elettorale di nessun candidato alla segreteria. Un effetto negativo si scarica immediatamente sul metodo delle primarie, che Stefano Ceccanti rivendica come mito fondativo del PD. Il mito prevede che il leader di partito sia anche automaticamente candidato alla Presidenza del Consiglio. Ma se il candidato segretario, al fine di raccogliere più consensi negli elettori di partito, resta ambiguo o taciturno sulle proposte di governo, allora la cosiddetta “sinistra di governo” resta, essa stessa, solo una proiezione mitologica.
Giovanni Cominelli