Nonostante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento dell’Unione europea sia entrata nel vivo, si continua a parlare solo delle cose di casa nostra. Al punto che i risultati del voto del prossimo 26 maggio sono attesi solo per valutare se sarà possibile, e se sarà il caso, di andare avanti con gli attuali equilibri parlamentari e governativi.

Non riusciamo mai a uscire dalla logica di guardarci l’ombelico, non proviamo mai a sprovincializzarci un po’ e a prendere piena coscienza che la “ marginalità” del nostro Paese, e di noi italiani, costringe a una diversa consapevolezza.

Eppure, il clima in cui nacque il governo giallo verde e le dichiarazioni apodittiche che quel clima caratterizzarono, a seguito della grave crisi istituzionale innescata con gli improvvidi attacchi al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il clamoroso trasferimento di Paolo Savona ad altro incarico, fecero pensare che soprattutto la “ questione” europea avrebbe finito per definire l’agenda dell’esecutivo guidato dal trio Giuseppe Conti, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Così non è stato e, purtroppo, non è.

Invece, ci sarebbe proprio da occuparsi tutti insieme dell’Unione europea, della crisi della sua governabilità e rappresentanza e dell’evaporarsi di quello spirito popolare che ne ha animato i primi decenni di vita.

Affrontare, oggi, la questione europea non è semplice. Questa potrebbe costituire l’unica scusante di Salvini e Di Maio.

Essa si collega e s’innesta, infatti, nel più ampio riassetto degli equilibri internazionali perché la definizione, o l’ambizione di alcuni paesi ad assurgere al ruolo di potenze regionali complica, non semplifica gli assetti. Così come pesa, tantissimo, la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia.

La vicenda libica, lo è stata in precedenza pure quella siriana, è emblematica al riguardo, mentre si aggrava la frattura interna al mondo islamico sunnita, al punto di assimilarla ad una “ faglia vulcanica”in corsa dal Mediterraneo, all’Afghanistan, all’Estremo oriente.

Il primo quesito cui dovremmo rispondere è dunque: vogliamo continuare a far sì che l’Europa giochi un ruolo importante di ragionevolezza e pacificazione all’esterno, sulla scia di quello che essa è riuscita ad assicurare al proprio interno, all’indomani di quel 25 aprile del ’45 che stiamo ricordando in queste ore?

Non sono cose di poco conto. L’allargarsi dei conflitti, il favorirli, sia pure inconsapevolmente, per quanto si abbia ragioni da vendere, dovrebbe costituire il primo motivo per riscoprire, per un paese piccolo come il nostro, un ruolo di collaborazione e di tentativo di conciliare persino l’inconciliabile. Forse non basta solamente recriminare con la Francia sulla Libia.

Dopo la questione della Pace, è necessario valutare ciò che di positivo è stato costruito grazie al processo europeo con i grandi vantaggi che, come italiani, abbiamo ricevuto dal nuovo assetto continentale.

L’Italia, anche perché parte dell’Europa, ha potuto avere grandi dei progressi economici, sociali, culturali, umani e tecnologici realizzati negli ultimi decenni nel mondo intero. Ci lamentiamo oggi di quella che è la crisi della prima fase della globalizzazione, dopo l’esaurirsi dell’iniziale stimolo propulsivo basato su un’impetuosa circolazione delle idee, delle persone e delle cose in maniera prima inimmaginabile.

Con essa, la condivisione e il rafforzamento delle conquiste scientifiche e tecnologiche, la creazione dello spazio giuridico europeo, adesso in via di allargamento a un novero sempre più ampio di paesi, cosa che semplifica la definizione di controversie in atto tra persone e imprese di paesi che hanno diversi sistemi giudiziari.

Si è creato un mercato unico di oltre 500 milioni di persone con gli enormi vantaggi portati alla nostra economia, profondamente legata ai mercati del resto d’Europa.

La discussione sulla Brexit in Gran Bretagna ruota soprattutto attorno a questo, non c’entrano più niente i vecchi sentimenti isolani e isolazionistici. Provate oggi a spiegare a un giovane di Londra o di Manchester che non può più liberamente muoversi verso quello che è diventato parte della propria quotidianità o che deve pagare la pasta, la mozzarella, i formaggi francesi o la birra belga di più perché tornano le vecchie logiche doganali di un tempo.

L’Europa ha significato, e ancora significa, politica di convergenza e coesione. Ciò che ha consentito a tante aree depresse di crescere (in alcuni casi, la cosa, vedi Irlanda, oltre 3mila morti, e Paesi Baschi, altri 800 morti, ha contribuito alla fine di conflitti decennali interni sanguinosi).

E’ stata l’Italia, purtroppo, per suoi antichi vizi e deficienze, a non utilizzare queste politiche comunitarie per risollevare il Mezzogiorno nella maniera che sarebbe stato necessario fare.

Noi italiani non abbiamo mai saputo adeguatamente richiamare, per mille motivi, quell’enorme flusso di denaro dell’Unione (351,8 miliardi di euro nel solo periodo 2014 – 2020, in aggiunta a tutto il resto erogato in precedenza) ridistribuito tra i diversi paesi sulla base dei progetti a lunga scadenza. I tanto euroscettici britannici li hanno sempre utilizzati al 100%. E’ colpa loro o nostra?

Non dimentichiamo quello che l’Europa ha significato per i riconoscimenti dei diritti del consumatore, per l’impegno a favore dell’ambiente e della cultura. C’è poco da dire: senza l’Europa saremmo stati ancora più vittime degli storici ritardi della nostra politica e della nostra burocrazia in questi settori.

A fronte di tutto ciò c’è da registrare l’involuzione del processo decisionale europeo. Frutto, però, non solo dell’egoismo germanico, ma anche di quelli francese, italiano, britannico. Un egoismo, ora arricchito da quello dei nuovi arrivati dell’ex Europa orientale che, evidentemente, dimenticano i costi sostenuti da tutti noi per farli uscire dai postumi della tragedia del comunismo sovietico.

Anche noi abbiamo contribuito a questa involuzione. Basti pensare come nella scelta dei vertici apicali della Ue abbiamo sempre seguito la logica “ amicale” e di potere all’italiana. Non sempre abbiamo spedito a Bruxelles e Strasburgo servitori dello Stato capaci e leali al proprio popolo, prima che agli “ interessi” di ogni genere che li hanno sempre sponsorizzati.

I tedeschi, ma come tutti gli altri, noi compresi, hanno pensato giustamente ai propri affari.

La differenza è stata che noi abbiamo avvantaggiato gli interessi di pochi italiani (soprattutto azionisti delle grandi imprese e delle banche) a scapito di una cura attenta alle necessità nazionali più generali. Sarebbe interessante studiare l’allargamento all’estero delle banche italiane mentre avveniva la cessione ai francesi, ma solo per fare un esempio, di una buona parte della grande distribuzione nel nostro Paese. A suo tempo, con molta semplicità ma efficacia, Giovanni Marcora, allora ministro dell’Agricoltura, parlava dello scambio, fatto sempre con i francesi, tra Italsider di Taranto e le consistenti concessioni elargite agli agricoltori francesi o olandesi. Tutto presuppone una scelta … e un costo.

E’ chiaro che la mancanza di una nostra politica europea seria (non sappiamo davvero cosa stia facendo a questo riguardo l’attuale Governo, dopo che il ministro Savona ha abbandonato il suo incarico senza lasciare alcuna traccia rilevante, o almeno risaputa) rappresenti per l’Italia un grave handicap.

Abbiamo inizialmente sentito tante bellicose dichiarazioni da parte di Di Maio e Salvini. E’ ovvio chiedersi se siano state da noi presentate in Europa proposte sui nuovi necessari criteri da introdurre per la valutazione del debito pubblico, sulla gestione futura dell’euro e della Bce, sulla ridefinizione dei parametri di Maastricht, sulla unitarietà della politica estera, sul concetto di difesa comune ecc ecc.

Oppure, si preferisce continuare a prendersela con i “ cattivi “ tedeschi i quali fanno molto bene i loro interessi in un’ottica globale e unitaria della difesa del loro paese?

Forse sarebbe il caso, dopo le enunciazione e la denuncia dei problemi, problemi veri!, che anche noi italiani si cominciasse ad approfondirli con virile consapevolezza anche delle nostre responsabilità.

Su tutto ciò, temo, ci sia poco da attendersi di qui al 26 maggio, prossimo venturo e forse … anche dopo.

Giancarlo Infante

Articolo pubblicato su Il Domani d’Italia  http://www.ildomaniditalia.eu/europa-ancora-non-pervenuta/

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