Non è un mistero per nessun occidentale appena un po’ informato che i Cinesi abbiano sempre visto il mondo diviso non per feroci e aggressive macchine da guerra, ma per aree culturali. E – non senza qualche ragione – la loro civiltà come quella che, nei millenni, ha sempre avuto più occasione di pacificamente insegnare qualcosa agli altri popoli, che non qualcosa da apprendere da loro. Il che fa della loro siccitosa terra il centro del mondo. Ne sono convinti senza complessi, come di un’ovvietà e – sino a circa tre secoli or sono – facendo quasi fatica ad immaginare che da altri punti di vista, meno proiettati nel lunghissimo periodo, questa loro convinzione potrebbe oggi sollevare più di un sorriso di ironia, qualche disaccordo e non pochi timori e ostilità.

Eppure i Cinesi non sono gli unici ad identificare la loro cultura e le loro propensioni come un fattore distintivo a carattere mondiale. Ciò è stato vero non solo per gli Inglesi, che hanno avuto qualche ragione di crederlo, quand’erano al culmine della loro espansione coloniale; e quando il loro idioma è diventato quel che è oggi, la lingua franca universale. E basta pensare agli Islamici, che per una dozzina di secoli, prima che il colonialismo europeo li umiliasse e li facesse letteralmente a pezzi, hanno sempre visto nella penisola arabica, e specificamente nella Mecca, il centro del pianeta, da cui si diffondeva una luce spirituale che oggi va dal Marocco al Sud-Est Asiatico, ma da molti tuttora considerata come inevitabilmente destinata a raggiungere l’intero genere umano.

Infine, anche se meno ingenuamente dichiarato, non meno evidente è il fatto che tutte le infinite sette Protestanti – e tutta una complessa e globale pletora “protestant-minded” – concordino nel vedere l’America del Nord come una sorta di “Impero del bene”, come l’arena privilegiata per la ricerca del successo terreno, che confermi il possesso della “grazia”; come il “paese splendente sulla collina”; come la società marcata da un indiscutibile “exceptionalism”; come la nazione “indispensible” per mantenere il resto del mondo sul retto sentiero morale. O a riportarcelo, se ritenuto necessario, anche con le maniere forti.

L’identità di un continente

“E l’Europa?”, ci si chiederà a questo punto. Ebbene, per quel che riguarda l’Europa, sembra assai difficile contestare che, senza eccessi di retorica declamatoria – anzi, proprio rifuggendo dall’ autodistruttivo fanatismo degli Islamici, come dalla gretta presunzione dei Protestanti –essa possa essere vista come un’area culturale indelebilmente marcata dal Cattolicesimo. E ciò senza bisogno di evocare né la funzione universalistica del Papato e di Roma, né l’eredità del mondo classico in cui questa si innesta. Anzi, tenendo conto che, con il Papa “venuto dalla fine del mondo”, viviamo oggi in una fase in cui l’universalità del Cattolicesimo è fortemente sottolineata.

Ai modi in cui si è espressa nell’ultimo secolo l’identità culturale cattolica del nostro continente, si è ovviamente giunti in modo alternante. E non è difficile notare che c’è stato – nella nostra contemporaneità – un momento in cui questa identità culturale è stata abbastanza forte per incarnarsi in risultati politici molto sostanziali, e per essere consacrata anche da un punto di vista istituzionale: il momento del secondo dopoguerra, e della “fase aurorale” della Comunità Europea.

In quello straordinario momento, dopo tanto dolore e tanti orrori, dopo la feroce esplosione del neo-paganesimo nazista, si manifesta quella che – se il mondo fosse posto a caso –potrebbe apparire una mera coincidenza, un momento vissuto senza vera consapevolezza. E invece non lo è, come si vede dalle Dodici stelle della bandiera originariamente creata per il Consiglio d’Europa.

Come ha fatto notare il sociologo francese Olivier Roy in apertura del suo “L’Europe est-elle chretienne?” –, “tre dei quattro padri fondatori dell’Europa –  Robert Schuman, Alcide De Gasperi, e Konrad Adenauer, erano dei cattolici devoti e ferventi, e i primi due sono addirittura morti in odore di santità. Per loro, era evidente che il Cristianesimo fosse al cuore dell’identità europea. Eppure non sono mai presa cura di fissarlo nei testi. Sapevano forse che la lettera uccide lo spirito, Oppure l’evidenza era talmente forte che non c’era bisogno di scolpirlo nel marmo?

La questione si è posta invece cinquant’anni dopo, nel 2004 con il preambolo del progetto di Costituzione Europea, il secondo Trattato di Roma. Alcune voci, soprattutto di parte cattolica, si levarono perché vi fosse fatta menzione delle radici cristiane dell’Europa. Una formulazione che porta a fare due osservazioni. In primo luogo si parla soltanto di radici, perché evidentemente si esita a parlare di ’Europa cristiana’ E poi che, se c’è bisogno di menzionarle in un testo costituzionale, significa che esse non sono più evidenti.”

Ma, soprattutto, i tre paesi fondatori erano in una fase politica particolarmente favorevole non solo alla nascita dell’Europa unita, ma anche alla fioritura dell’impegno cattolico in politica. Perché erano tutti e tre i paesi protagonisti di quella straordinaria avventura e di quei tempi – dei quali oggi più che rimpiangerli, si va audacemente alla ricerca in termini nuovi –  erano governati da forze minoritarie rispetto alle più aspre tradizioni nazionalistiche che avevano storicamente dominato in ciascuno di essi.

Tre uomini sul margine

Schuman, il Primo Ministro Francese era nato da un padre lorenese. Ma che si era trasferito al di là del confine col Lussemburgo quando, dopo il 1870, si era, da cittadino francese, si era ritrovato ad essere suddito del Kaiser. E, significativamente, nel 1919, il figlio aveva anche lui compiuto – ma nella direzione opposta, e trionfalmente – lo stesso breve tragitto, dopo che la Lorena era ritornata francese. Per la sua stessa personale biografia e per tradizione familiare, Schuman veniva dunque da quella parte della Francia che era stata sotto il giogo tedesco fino alla Prima guerra mondiale, e rappresentava forze politiche cattoliche storicamente oppresse dall’estremismo nazional-giacobino della tradizione francese. Da una “area culturale”, insomma, così fortemente caratterizzata dal fatto Cattolico, anche in campo politico ed istituzionale, che ancora oggi non vi si applicano – per legge – alcuni dei principi della Francia laicista

Al governo dell’Italia c’era De Gasperi, che era stato eletto deputato in rappresentanza delle zone italiane dell’Impero, il Trentino austriaco, al Parlamento di Vienna e che, per il suo patriottismo italiano aveva conosciuto la galera austriaca. Così come, nel ventennio successivo aveva conosciuto quella italiana, per essere stato un nemico dichiarato del fascismo e del suo aggressivo e disastroso imperialismo. Ma un patriottismo, quello degasperiano, che era del tutto estraneo agli ambienti nazionalistico-massonici post-risorgimentali e dell’Italia pre-fascista.

Il tedesco Adenauer, infine, era espressione delle Renania cattolica, cioè di una tradizione contro la quale la Germania bismarckiana, a forte caratterizzazione protestante, aveva aspramente condotto un’aspra campagna politico-culturale, per non dire una guerra vera e propria: il kulturkampf. E soprattutto, era espressione di una Germania post-bellica, quella nata dalle tre zone d’occupazione britannica, francese e americana, e di cui quindi non faceva più parte quella “grande caserma” che era stata la Prussia. Cioè, di una Germania su cui non gravava più l’area culturale che era stata il cuore stesso di quelle sue tradizioni militaristiche e imperialistiche; e che l’avevano trascinata in due tremende guerre, in complesso perdute, contro quelli che ora diventavano i suoi nuovi partner europei.

Dei tre uomini che hanno fondato l’Europa si è detto che essi potevano incontrarsi senza interpreti e intendersi usando un idioma, il Tedesco, che per tutti e tre era una lingua –madre, o quasi. Era vero; ed era un fattore culturale significativo. Ma essi avevano in comune molto di più: non solo la matrice ideologica, quella cattolica, fortemente pacifista, e più che mai vivace in quel frangente postbellico. Soprattutto, avevano in comune l’ostilità alle culture politiche tradizionalmente oppressive nei loro confronti, e che in ciascuno dei loro paesi avevano più fortemente nutrito i nazionalismi reciprocamente aggressivi.

Storicamente escluse, o tenute ai margini del potere politico nei rispettivi quadri nazionali, le forze politiche di ispirazione cattolica si ritrovavano invece non solo tra esse in sintonia politico-ideologica, ma addirittura maggioritarie. E di fatto in posizione dominante, nel nuovo quadro europeo, mentre erano state in posizione dominata nel quadro nazionale. E al tempo stesso, in tale nuovo quadro, quelli che erano stati i loro potenti avversari apparivano ormai irrimediabilmente legati al passato, nonché diversi e politicamente frammentati, spesso tra di loro assai ostili.

Il disorientamento globale

Oggi, tre quarti di secolo più tardi quel tragico ed “aurorale” dopoguerra, le cose sono – almeno in apparenza – profondamente cambiate, tanto che appare necessario rievocare anche formalmente quelle radici che erano allora così evidenti. E ciò deriva da fenomeni che vanno oltre la dimensione europea, coinvolgendo il mondo occidentale nella sua interezza.

Si tratta di forti processi di secolarizzazione, e del conseguente affievolimento di quasi tutte le identità collettive; conseguenza di un fenomeno non tanto di globalizzazione, di cui taluni aspetti positivi sono innegabili, ma soprattutto di fenomeni talora ciechi di semplice americanizzazione, imitati spesso in maniera distorta da un pitoyable edonismo consumistico, sessuale e legato al consumo delle droghe. Imitato altresì da fenomeni che hanno senso storico solo al di là dell’Atlantico, dove sono patenti non solo il definitivo fallimento del melting pot, e il profilarsi di una società complessa e conflittuale, frammentata lungo linee comunitarie, ma anche una rivolta incompiuta contro il rigorismo tipico delle originali comunità puritane. Rivolta che alla fine ha rivoluzionato se stessa, e che si è semplicemente risolta in un nuovo altrettanto rigido conformismo, anche se in termini capovolti.

Giuseppe Sacco

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