Quella che segue è la prima parte del contributo di Daniele Ciravegna all’approfondimento in corso da parte di INSIEME in materia di Giustizia, coesione sociale e sviluppo possibile (CLICCA QUI).

1. Fondamento etico primordiale dell’azione economica è il diritto universale all’uso dei beni della Terra, chiaramente presente fin dal “Libro della Genesi”, introdotto nel corpo della Dottrina sociale della Chiesa da Papa Pio XII con il Radiomessaggio di Pentecoste del 1941 e ripreso in tutti i documenti successivi del Magistero della Chiesa cattolica. Esso è il fondamento del principio di giustizia sociale, generata dalla presenza di giustizia distributiva e di carità sociale.

È l’azione economica vista nella sua dimensione soggettiva, fonte di dignità per ogni soggetto economico, riconoscimento e valorizzazione del contributo che ogni soggetto economico dà al processo produttivo e allo sviluppo integrale delle persone, delle comunità, delle nazioni,  dell’intera umanità,  in un modello di sviluppo incentrato sulla giustizia sociale assai più che sulla crescita economica.

La giustizia sociale è assai rilevante di per sé, ma lo è anche perché contribuisce a creare coesione sociale. L’aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali all’interno di un medesimo paese e tra le popolazioni dei vari paesi, ossia l’aumento massiccio della povertà in senso relativo, non soltanto tende a erodere la coesione sociale, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile.

La giustizia sociale serve anche a migliorare la qualità del bene comune. Già il “bene comune”, concetto sulla cui realizzazione tutti concordano, semplicemente perché ognuno lo intende a modo suo, come sempre avviene quando un termine è largamente impiegato. È quindi essenziale impostare un approfondimento stringente sul contenuto del “bene comune”. Che le persone, specie quelle impegnate in politica, mettano sul tappeto quale è il contenuto che danno al “bene comune”, anziché lasciarlo non spiegato e sottinteso! Esso non può emergere che presentando e confrontando i valori, venendo i gruppi a contrapporsi apertamente se i valori differiscono fra gruppo e gruppo.

In effetti, la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la pólis verso un determinato obiettivo che risulti in contrasto con l’obiettivo di una o più controparti. Non invece nella contrapposizione di gruppi che hanno obiettivi simili (o che non ne hanno) e che si contrappongono solamente perché ognuno di essi vuole acquisire potere di governo, emarginando gli altri gruppi di potere. Questa sarebbe solo lotta di potere senza contenuti etici. Quindi è essenziale saper distinguere in modo chiaro gli obiettivi finali, realizzando i quali il benessere della comunità migliora, e dirlo in modo aperto e chiaro.

Or bene, come fare a distinguere gli obiettivi finali da quelli intermedi? Questo è possibile solo se si hanno ben chiari i valori che ispirano questi obiettivi; non serve un generico riferimento al bene comune. Si può dire che obiettivi finali sono quelli che contribuiscono ai fondamenti del bene comune che discende da specifici valori e obiettivi intermedi sono quelli che sono semplicemente funzionali rispetto agli obiettivi finali, al bene comune.

I “valori” possono essere quelli radicati nella natura stessa della persona, principi universali posti in ogni persona dal Creatore e che costituiscono la tutela di tutto ciò che di umano c’è in ogni comunità. Sono l’espressione dei “diritti naturali”, cioè quei diritti fondamentali che ogni persona ritiene tipici e comuni di tutti gli essere umani e segnano i limiti non intaccabili né da parte sua né dagli altri. Possono quindi anche essere valori che ogni sistema, ogni cultura, ha costruito nel corso della sua evoluzione e che costituiscono la giustificazione della comunità stessa. E poi vi sono i valori elaborati autonomamente da ogni persona, nella continua interazione con le altre persone, individualmente e comunitariamente. I valori coinvolgono anche i rapporti con Dio (anche nel senso di considerarli assenti): sono i valori religiosi della persona.

L’insieme dei “valori” posseduti da una persona costituisce la sua “etica”, la quale ha al centro della sua attenzione, oltre al rapporto con Dio e con la natura, il rapporto con le altre persone, il rispetto della persona umana, della sua libertà, del suo sviluppo. Alla luce della sua etica, la persona prenderà le sue decisioni e manifesterà quindi la sua “morale”, il suo comportamento abituale (“morale” da mores, costumi/abitudini), che concorre a determinare le norme di comportamento (la “morale”) accettate e tenute in considerazione, più o meno alta, all’interno della comunità cui la persona appartiene. Nessuna attività umana è esclusa da considerazioni etiche, le quali portano all’assunzione di responsabilità sia per sé sia per gli altri, in ogni àmbito di vita.

Importante fonte di valori è la Dottrina sociale della Chiesa, la quale indica, come suoi principi fondanti, la centralità della persona e la fraternità. .La fraternità completa la centralità della persona, dando dignità alla persona stessa, e la DSC fa pienamente proprie la centralità e dignità della persona, al punto di assumerle quali assiomi di base delle proprie argomentazioni, e indica esse quali unico modo attraverso il quale si realizza lo sviluppo umano integrale (tutti gli aspetti della persona e tutte le persone).

La centralità e dignità della persona si declina con il rispetto della vita umana (dal concepimento alla sua fine naturale), della famiglia (comunità necessaria per lo sviluppo della persona, cellula primaria della comunità, da sostenere e da distinguere dalle diverse forme di unioni), dell’educazione e del lavoro: questi due ultimi rivestono primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e della donna e, per questo, occorre che essi siano sempre organizzati nel pieno rispetto della dignità della persona e al servizio del bene comune.

2. In particolare, con il lavoro (se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale, punto essenziale della sua dignità), l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti. Il lavoro è fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la questione sociale e non deve essere inteso soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali, bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo.

Papa Francesco quasi quotidianamente sottolinea che nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita; che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane. Il lavoro dà la dignità e che non si dica “chi non lavora non mangia”, ma “chi non lavora ha perso la dignità!”. Chi lavora è degno; ha una dignità speciale; una dignità di persona: l’uomo e la donna che lavorano sono degni e il lavoro appare, non come effetto di un calcolo economico utilitaristico riguardante l’impiego ottimale del tempo a disposizione (che è l’approccio, ad esempio, della teoria economica neoclassica), ma come espressione della creatività e della realizzazione della persona, permettendone l’integrale sviluppo. Per questo, il lavoro non è un dono concesso a pochi privilegiati; è un diritto per tutti!

Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che, mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo, oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella situazione precedente, anche chi è lasciato o tenuto fuori dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del termine working poor.

In effetti, un modo necessario per eliminare la povertà è che venga assicurato un lavoro a tutti; non è però sufficiente, poiché il lavoro assicurato a tutti dev’essere dignitoso per tutti. La persona che non ha un “lavoro dignitoso” continua a essere “povero”, che è concetto più ampio rispetto a essere in stato di deprivazione materiale: una persona che ha accesso a un lavoro che non è “dignitoso” è “povero” anche se può, col suo lavoro, essere non in stato di deprivazione materiale. Esiste poi la povertà non di tipo economico: la solitudine, la povertà di relazioni interpersonali, la povertà di spirito comunitario, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc. Perciò un lavoratore può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza propria e della sua famiglia (anche se lavora a tempo pieno e, a maggior ragione, se ha un lavoro a tempo parziale) oppure soffre di deprivazione non economica. Di fatto, tenendo conto di tutte le sfaccettature sopraddette che la povertà può assumere, si può anche pensare che la povertà non sia mai annullabile completamente.

Le parole precedenti ripropongono il tema di una vera cultura del lavoro, che non può realizzarsi se non a séguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le dimensioni del lavoro. La dimensione non solo oggettiva, ma anche la dimensione soggettiva, che non può non essere sociale, oltre che individuale. Il lavoro come occasione di formazione e di sviluppo personale; il valore del lavoro che dipende soprattutto dalla persona che vive il lavoro, ma che dipende anche da un corretto sviluppo del lavoro e da una chiara visione dei lavori, dei diversi tipi di lavoro compresi nella loro essenza, e non semplicemente nei loro aspetti superficiali e alla moda.

Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. Dai contenuti di diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.

Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del bene comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.

Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Oggi, soprattutto nei paesi altamente sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure la donna e l’uomo si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.

Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e della donna e per lo sviluppo della comunità e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del bene comune. Il lavoro fa parte della vita della donna e dell’uomo. Oggi, soprattutto nei paesi più sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure l’uomo e la donna si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.

Ho voluto sottolineare la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone nell’Amazzonia o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone!) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Come nella finanza etica si distingue fra “finanza buona” e quella non buona perché finanzia attività ritenute incompatibili con principi eticamente condivisi – come la produzione e il commercio di armi, forme di produzione e di gestione che non rispettino la giustizia sociale, non rispettose del valore della vita umana, della salute delle persone o dell’ambiente naturale, e quindi fondate sullo sfruttamento, diretto o indiretto, del lavoro e delle risorse naturali, nelle economie più ricche così come nelle economie più povere, o che mirano a sostenere regimi politici dittatoriali o razzistici – così non è sufficiente lavorare, ma è necessario che da quest’attività sgorghino “cose buone”. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.

L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle.

In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona.

A quest’ultimo proposito, occorre richiamare anche un altro aspetto del lavoro. Esso si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche e al processo decisionale normale dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.

Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita da una macchina.

Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La compartecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa, un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella società, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri. (Segue)

Daniele Ciravegna

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