Il tema della qualità delle politiche migratorie, ed in particolare del contrasto dei flussi di ingresso irregolari, è tornato al centro dell’attenzione con la riproposizione delle polemiche e delle rivendicazioni che hanno caratterizzato il decennio precedente la pandemia Covid.
Evidentemente non è bastata nemmeno una grave crisi delle relazioni geopolitiche internazionali a sollecitare l’esigenza di una corretta rilettura dei fenomeni migratori. Una criticità che nel contesto italiano si accompagna al palese esaurimento dei contenuti e della governance delle politiche per l’immigrazione che hanno accompagnato la rapida crescita della popolazione di origine straniera nel territorio nazionale nel corso della prima parte degli anni duemila.
L’accoglienza dei profughi provenienti dall’Ucraina ha introdotto importanti novità nelle politiche di accoglienza dei paesi aderenti all’Ue. In particolare l’attivazione, che non aveva precedenti, del dispositivo previsto dalla direttiva europea 2001/55 per il rilascio da parte dei Paesi della Ue di un permesso temporaneo di soggiorno immediato della durata di un anno, rinnovabile per altri due, per far fronte a flussi straordinari di sfollati provenienti da contesti extra-comunitari particolarmente critici e impossibilitati a rientrare nei territori di provenienza. Una decisione assunta all’unanimità dai Paesi aderenti nell’ambito di un intervento che ha stanziato anche 3,5 miliardi di euro per sostenere le spese dell’accoglienza.
L’accoglienza dei profughi ucraini negli altri Paesi della Ue, in grande prevalenza donne e bambini, viene stimata in circa 4 milioni di persone. Per la stragrande maggioranza approdate nella vicina Polonia (1,5 mln) e in Germania (1 mln), con un contributo significativo, circa 170mila persone accolte, offerto dall’Italia.
In parallelo alla crisi ucraina, nella fase post Covid sono ripresi anche i flussi irregolari che hanno generato 165mila nuovi ingressi nell’Unione Europea nel corso del 2021 e 228mila nei primi 9 mesi dell’anno in corso (dati Frontex). Nuovi flussi ripartiti su 5 rotte d’ingresso, le principali: quella via terra dei Balcani (106mila) e del Mediterraneo centrale (65mila) che coincidono con gli ingressi irregolari nel nostro Paese.
L’ultimo monitoraggio del ministero dell’Interno del 10 novembre scorso segnala l’arrivo via mare di circa 90mila persone, oltre 50mila negli ultimi 4 mesi, superiore ai numeri registrati nel 2020 (30.780) e 2021(67.458). Cifre distanti dalle punte registrate, a cavallo tra gli anni 2014-2018, pari a 670mila nuovi ingressi complessivi.
La peculiarità del caso italiano riguarda tre fattispecie: l’elevato numero di persone sbarcate rispetto a quelle che hanno successivamente chiesto il permesso di protezione, circa 470mila; un elevato livello di diniego per le richieste di asilo e di protezione per l’assenza dei requisiti dei richiedenti, con una media pari al 70% delle domande, e con punte superiori al 70% nel biennio 2018-2019 legate alla restrizione normativa intervenuta per il rilascio dei permessi umanitari; una elevata quota di immigrati irregolari, motivati da ragioni economiche, provenienti da Paesi del Nord e Centro Africa e asiatici che non presentano una particolare esposizione ai conflitti bellici o alla violazione sistematica dei diritti civili.
I dati relativi all’accoglienza finale dei profughi registrati nel secondo decennio degli anni 2000 nei Paesi aderenti all’Ue segnalano una media annuale di 193mila immigrati accolti in Germania, 77mila in Francia, 49mila in Italia e 33mila in Spagna. Nella stima dell’accoglienza finale rapportata alla popolazione residente di ogni Paese il posizionamento dell’Italia precipita al 15esimo posto della classifica, che registra un balzo in avanti dei Paesi del Nord Europa e, sorprendentemente, anche di una parte significativa di quelli dell’Est Europa che vengono considerati come pregiudizialmente ostili ad accogliere questi immigrati.
Innanzitutto appaiono infondati tre luoghi comuni, ovvero gli errori di valutazione che con linguaggi diversi vengono propagandati all’unisono dalle forze politiche della destra e della sinistra italiana.
Il primo riguarda la propensione ad identificare le politiche per l’immigrazione finalizzate a contrastare gli ingressi irregolari e ad accogliere i profughi con quelle finalizzate a regolare gli ingressi per altre finalità. Questa distinzione rimane necessaria, e non deve essere confusa con i fabbisogni d’ingresso per altri motivi, perché il rilascio dei permessi di protezione internazionale, oltre ad essere orientati dal rispetto dei trattati internazionali, prevede obbligazioni che sono indipendenti e non sovrapponibili rispetto all’esigenza di programmare in modo sostenibile, e coerente con i fabbisogni nazionali, le altre modalità di ingresso per motivi di lavoro, formazione o ricongiunzione familiare. Queste ultime, volenti o nolenti, continuano rimanere nelle competenze dei singoli Paesi. I dati statistici a disposizione confermano che l’incidenza dei profughi sul mercato del lavoro italiano nell’ultimo decennio non ha superato lo 0,3% degli occupati.
Il secondo errore condiviso riguarda la narrazione dell’Unione Europea come un aggregato di Paesi miopi ed egoisti che lasciano sola l’Italia di fronte a una dinamica di flussi che penalizza il nostro Paese per la particolare esposizione geografica. Le istituzioni della Ue, per una scelta comune, sono effettivamente sprovviste di competenze per attuare un’efficace politica per l’immigrazione. Il nostro posizionamento geografico penalizza la capacità di contrastare in modo adeguato i flussi di ingresso irregolari via mare. Ma l’esito finale non è affatto coerente con queste affermazioni, perché i livelli di accoglienza finale dei profughi in Italia risultano, come già evidenziato, inferiori alla media dei paesi Ue. Se alle istituzioni europee venisse affidato il compito di ripartire con criteri obbligatori i profughi tra i Paesi aderenti, il nostro dovrebbe ospitare un numero maggiore di immigrati non programmati.
Il terzo errore è quello di considerare come ineluttabile la crescita di questi flussi migratori, che per la sinistra italiana è la conseguenza del mutamento epocale, e non arginabile, degli squilibri demografici della popolazione mondiale, della mole dei conflitti bellici e delle devastazioni climatiche. Per la destra assume il volto di un’invasione sostenuta da organizzazioni esterne finalizzate a destabilizzare la nostra comunità e che deve essere contrastata con ogni mezzo. Tutte queste affermazioni contengono delle parziali verità. Ma nel caso italiano queste verità sono ridotte al lumicino. Non siamo di fronte a invasioni né, tantomeno, all’impossibilità di gestire in modo funzionale i flussi di ingresso. Per il semplice motivo che la gran parte di questi flussi, soprattutto quelli verso l’Italia, vengono selezionati da gestori delle tratte sulla base della capacità di pagare lautamente il servizio da parte dei malcapitati.
Non sono i Paesi estremamente poveri che alimentano questi flussi. Nemmeno per la quota, decisamente minima, dei rifugiati in fuga da conflitti bellici, persecuzioni etniche e carestie che approdano in Europa, se si tiene conto che il 90% si trasferiscono nelle aree territoriali limitrofe (dato Ocse). A confermarlo sono diversi studi internazionali sulla materia, nonché i servizi di intelligence dei Paesi occidentali, purtroppo poco ascoltati, che segnalano la crescente pericolosità delle tratte relazionata anche alle crisi delle relazioni geopolitiche in molte aree del globo.
La conseguenza logica è quella di ricercare soluzioni a livello sovranazionale in grado di attrezzare in questo ambito le politiche di contrasto delle tratte criminali, di consolidare i rapporti con i Paesi di origine, promuovendo politiche di cooperazione anche nell’ambito della formazione delle competenze dei lavoratori e dei flussi regolari d’ingresso favorendo una nuova generazione di intese bilaterali e multilaterali con i Paesi di origine, per rendere credibili le iniziative di rimpatrio degli immigrati irregolari privi dei requisiti di protezione.
Parte di queste nuove politiche dovrebbe essere l’evoluzione di Frontex verso un’organizzazione stabile di polizia di frontiera europea per contrasto delle tratte, e la trasformazione dell’Ufficio europeo per l’asilo (Easo) nella Agenzia europea per l’asilo, in grado di offrire un supporto ai singoli Paesi. Con la creazione di una rete di hotspot che potrebbe essere sperimentata in prima istanza nel Mediterraneo. Un’assunzione di responsabilità collettiva che potrebbe mettere la parola fine all’incresciosa e imbarazzante polemica sul ruolo svolto dalle Ong nel Mediterraneo, arrivata al punto di compromettere i rapporti, già di per sé complicati, tra i governi nazionali coinvolti.
In questo contesto la priorità assoluta non può essere quella di alimentare il conflitto con gli altri Paesi europei per marcare le prerogative nazionali, incrementando i livelli di diffidenza riguardo la capacità storica dell’Italia di controllare e gestire i flussi migratori, e non solo quelli via mare. Nemmeno di teorizzare politiche dell’accoglienza prive di discrimine e destinate oggettivamente, e in modo statisticamente comprovato, a rinvigorire e ad ampliare il flussi irregolari e le organizzazioni criminali che gestiscono le tratte.
Natale Forlani