Siamo nuovamente nel pieno di una complessa situazione sanitaria.

Credo sia evidente come la realtà del servizio sanitario nazionale e regionale sia inadeguata rispetto alle aspettative della popolazione, nonostante numerosi esempi di abnegazione e di grande impegno che pure vanno riconosciuti e apprezzati: è il sistema che non sembra proprio adeguato. E chi guida il Servizio Sanitario, sia a livello nazionale che regionale, pur nella complessità innegabile della situazione, non appare in grado di governare il sistema: trasmette solo ansia e angoscia e un senso di stizzita impotenza quasi che la colpa sia dei cittadini. E quel che è peggio, non si intravedono visioni prospettiche che lascino presagire almeno un qualche cambiamento.

Cerchiamo di definire la questione in maniera il più possibile razionale: il SSN, ossia l’insieme dei suoi servizi, ha il compito di svolgere il mandato costituzionale di tutelare la salute dei cittadini. Due questioni andrebbero analizzate: quali e quanti sono i “servizi” di cui dispone il Servizio Sanitario Nazionale (pubblici, privati accreditati – ETS e no)  e cosa dovrebbero fare, e a corollario, come sono dislocati; e inoltre cosa si intende per “Salute”.

Senza questa disamina, molto complessa, ogni intervento non aiuterà a risolvere il problema: ed è la strada che invece sembra aver imboccato il PNRR che indica ipotetici rimedi senza aver “socializzato” i dati e le analisi a fondamento delle scelte che intende agire: con una immagine che vuole essere solo di rassegnata ironia è come se ci accingessimo a difendere l’arenile senza definire da chi o cosa, costruendo qualche castello di sabbia sulla rena, confidando pure nella bassa marea…..

Nei servizi propri di un SSN un posto importante lo ricoprono i “posti letto ospedalieri”: non che la salute sia tutelata solo dai posti-letto, ma è di immediata percezione che i letti ospedalieri hanno un posto significativo e importante nel buon funzionamento di un servizio sanitario.

Qualche dato e qualche confronto. Nel 2018 (era pre-covid) in Europa, erano presenti in media 537 posti-letto ogni 100.000 abitanti. In Germania 800 posti letto ogni 100.000 abitanti, in Francia 590 ogni 100.000. In Italia 314 posti-letto ogni 100.000 abitanti.

E’ risaputo che i popoli germanici soffrano di “cagionevole salute” e che la dieta mediterranea sia un elisir di lunga vita, ma quasi la metà dei posti-letto rispetto ai cugini francesi, fa sorgere qualche dubbio… Un inciso, ma solo di passaggio: non è che la saturazione dei letti COVID che fa scattare giuste misure di restrizione, si calcola partendo dal numero totale dei letti disponibili?

Un rapporto di “OMS Europa” di più di dieci anni fa, ripreso anche dal nostro ISS, evidenziava all’epoca, all’interno di una analisi molto complessa, come – a puro titolo d’esempio – l’Albania avesse una situazione sanitaria molto precaria perché, tra le altre criticità, aveva solo 304 posti letto per 100.000 abitanti: pochi meno dell’Italia nel 2018….

E’ vero che il Regno Unito nel 2018 aveva 249 posti letto per 100.000 abitanti: peraltro, senza offesa per gli amici inglesi, il loro NHS, spesso preso a modello,  forse è più “mitico” che efficace. Anche ben prima del Covid, un lettore che avesse avuto la pazienza di leggere qua e là i principali giornali inglesi trovava quotidianamente notizie che descrivevano situazioni di funzionamento del servizio sanitario certo un po’ strane, come il ricovero a 400 km di distanza di un malato psichico perché non c’era un posto letto disponibile più vicino (più o meno come ricoverare a Bologna un malato di Roma); o la rivolta dei Bobby stanchi di tenere nelle guardiole anche per 48 ore pazienti agitati (magari anche per abuso di sostanze) in carico alle ambulanze che li avevano raccolti e che non potevano trattenerli oltre sulle ambulanze, perché non trovavano una barella in un PS; i rinvii di mesi di operazioni non urgenti perché nella stagione della “normale influenza” gli ospedali non potevano ricoverare, o la cronica inefficienza dei Trust sanitari britannici al centro di polemiche in ogni tornata elettorale, generale o locale. Anche ammettendo che sulla stampa prevalgono sempre le notizie che fanno scandalo, non si ha l’impressione che sia un servizio particolarmente soddisfacente. Però l’NHS, almeno in Italia, è come Bond: un vero mito, a prescindere.

I posti-letto sono solo un primo aspetto (altri ne affronteremo): non basta averli, bisogna suddividerli in base ai bisogni di salute in acuto cui devono saper rispondere. Per quanto sia fonte di conoscenza solo parziale, si hanno a disposizione i tassi di mortalità, anche a livello europeo, e non solo a livello italiano, che, uniti alle stime epidemiologiche di patologia, ampiamente e diffusamente presenti nella letteratura scientifica, sulla prevalenza attesa delle principali e più diffuse patologie da cui derivare le complicanze più gravi che necessitano di strutture adeguate come gli ospedali, ci potrebbero orientare a valutare una stima dei posti-letto ipoteticamente necessari e una loro possibile suddivisione, almeno teorica, nelle diverse macro-tipologie di discipline.

Teorica, perché per rispondere anche solo a questo primo aspetto che è parte di quel grande affresco organizzativo e gestionale  che è  la “tutela della salute” che ci chiede la Costituzione, è necessario aggiungere un elementare valutazione demografica e geografica: i cittadini, posto che siano effettivamente tutti uguali per uno Stato, non abitano nei luoghi più coerenti con il nostro modello di efficiente organizzazione, ma, specie in Italia, hanno il “brutto vezzo” di starsene in mezzo ai monti, in valli interne e comunque diffusi in tante piccole comunità….Fossero tutti concentrati in 5 megalopoli da 12milioni di abitanti, divisi  in ordinati quartieri, la pianificazione sarebbe tutta più semplice….proprio come in Cina…

Un disegno razionale che mette al centro la salute dei propri cittadini (e quello della risposta ospedaliera è solo uno e non l’unico degli aspetti da prendere in considerazione), dovrebbe quindi disegnare il fabbisogno teorico su basi epidemiologiche corretto sulla base della distribuzione della popolazione con qualche ragionamento aggiuntivo: più un territorio è disperso, più è cruciale un sistema di intervento di emergenza ben congegnato e distribuito sul territorio con un mix di adeguata e tempestiva capacità di trasporto e punti di primo intervento inseriti in un sistema ordinato di hub&spoke di PS strettamente interconnesso con i dipartimenti di emergenza ospedalieri. Di fatto è un complesso “sistema a rete” dove tutti gli attori ricoprono il ruolo di importanti “nodi della rete territoriale di emergenza” e devono poter agire tra loro con una classica modalità di interconnessione circolare: non so se ha a che fare con la “sussidiarietà circolare” o con il “welfare abilitante”, ma solo se all’interno di un solido disegno di cornice, la programmazione sanitaria, la comunità territoriale coinvolta è diretta e attiva protagonista del mantenimento funzionale di questo sistema si può sperare che la “rete” funzioni e sia mantenuta in efficienza: se pensato in maniera solo dirigista e diretto dall’alto i dubbi che possa funzionare, specie nelle zone rurali o con meno servizi, sono notevoli. E infatti nelle Regioni demograficamente e geograficamente più complesse, il sistema funziona poco e male. Di certo ci saranno anche responsabilità dirigenziali o politiche specifiche, ma il modello generale derivato dall’ordinamento sanitario nazionale non pare affatto facilitare le soluzioni necessarie.

E oltre al fondamentale problema della rete della emergenza (si suppone che chi ne ha bisogno abbia un grave problema di salute in atto: dopo aver messo la basi per una adeguata risposta, si può e si deve lavorare per ridurre il più possibile la necessità di interventi in emergenza…), è necessario sviluppare, almeno per le principali macro tipologie di patologie, un “sistema di reti di strutture dedicate”: la moderna medicina è in continua evoluzione tecnologica che, oltre ad investimenti consistenti, necessita di expertise nell’utilizzo che si affina solo con un ottimale tasso di attività. Una organizzazione per “rete di patologia” ben organizzata e distribuita su territori ben definiti, geograficamente individuati assieme alle comunità locali coinvolte, è in grado di offrire al cittadino una adeguata e tempestiva risposta al suo bisogno  il più vicino possibile alla sua residenza ed è in grado di individuare quei quadri di maggiore complessità e gravità che necessitano di quella tecnologia e expertise specifica e proporre il passaggio alla struttura della rete più adeguata e più prontamente disponibile, accompagnandolo e riprendendosi cura del paziente non appena superata la fase più complessa.

Un tal modo di agire presuppone che “la rete di patologia” con tutti i nodi che la compongono abbia una finalità unica e condivisa,  abbia possibilità di scorrimento trasversale tra gli operatori che compongono i diversi nodi della rete e sappia agire una sistematica formazione trasversale anche con ripetuti audit clinici tra pari, con  una continua condivisione degli obiettivi di miglioramento che devono riguardare assieme i vari nodi della rete (non ci salva da soli, giusto?): va da sé che in questa logica, gli ospedali sono sostanzialmente solo strutture di servizio che mettono a disposizione la logistica e le “facilities” necessarie (compito importantissimo!), ma sono le comunità locali la riserva generatrice di risorse anche aggiuntive e motivazionali per mantenere sempre viva e vitale la rete: anche con una sana competizione tra comunità di riferimento.

Il sistema centrale deve vigilare e intervenire perché tutte le regioni si organizzino in strutture a rete. Di nuovo, è questa una delle possibili forme di welfare abilitante e a sussidiarietà circolare?

L’ultima legge di riordino del sistema ospedaliero del 2015 ha tentato di definire i bacini di utenza teorici quale base di calcolo massima per organizzare negli ospedali le Unità Operative Complesse (ossia quanti  primariati, tanto per parlar semplice) delle diverse discipline, definendo il numero di posti-letto minimo per poter essere UOC e come aggregarle (i Dipartimenti), partendo come base di calcolo dal numero di posti-letto complessivo a disposizione, calcolato sulla base di una saturazione di occupazione dei posti-letto di almeno l’85%, dedotto dalle risorse economiche messe a disposizione dal sistema, al netto di eventuali fenomeni di migrazione di pazienti  trans-regionale (da scoraggiare), con l’obiettivo di favorire la collaborazione tra Regioni limitrofe anche per ridurre ulteriormente il numero dei posti-letto da tenere attivi: operazione di certo meritoria e complessa, tipica di un Ministero dell’Economia, non avvezzo a ragionar di cosa sia salute, ma, meritoriamente, solo di conti economici.

La riforma allo studio, dalle bozze e indiscrezioni circolate, non si discosta molto dal metodo prima succintamente illustrato. Proprio nelle situazioni di massima ristrettezza economica – anzi forse proprio in tali occasioni è ancora più necessario- serve una precisa analisi dei bisogni e dei modelli più efficaci di risposta così da individuare le priorità da soddisfare con le scarse risorse a disposizione: e questo è il ruolo insostituibile della Politica che serve il Bene Comune.

I sistemi regionali, nel frattempo, continuano imperterriti sulla strada della centralizzazione regionale e della aziendalizzazione della strutture, ospedaliere no, dentro o fuori le Asl poco importa, con indicatori  sostanzialmente  solo economici e sistemi premianti che “parlano di reti collaborative” e premiano solo  l’individualismo anche all’interno delle singole unità operative: e più si accresce la distanza tra attese di salute e risultati, più si accentua – per cercare rimedio – il dirigismo dirigenziale verticistico.

Diagnosi superficiale, rimedi inefficaci che vengono riproposti immodificati a dosi raddoppiate: chi si fiderebbe di un medico che agisce così? E infatti gli italiani hanno smesso di votare e di credere alla politica: e si affidano agli affabulatori: che altro potrebbero fare?

E’ oggettivo: organizzare servizi sanitari è molto difficile anche perché cosa sia la salute non è ben chiaro (e lo vedremo in un altro approfondimento): se rinunciamo ad applicare in questo campo con serena razionalità le conoscenze e le metodologie che abbiamo nei secoli appreso, appare assai utopico sperare in qualche miglioramento futuro.

Certo le risorse a  disposizione sono un doveroso e sacrosanto limite che è dato all’umano agire e di queste è necessario tenere conto per definire le priorità su cui poter operare: ma se continuiamo a individuare come rimedio le “gare centralizzate” (per le mascherine, i ventilatori o le siringhe o alto ancora)  o i modelli organizzativi manageriali tipici delle “corporate finanziarie” o delle grandi aziende manifatturiere, credo che la nostra gente, quando è malata, possa solo sperare nello …”stellone”, che da popolo mite e molto intelligente qual siamo abbiamo imparato ad apprezzare dopo tanti secoli di vessatorie dominazioni e di cattivi governi che abbiamo dovuto subire.

Massimo Molteni

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