La “povertà”, in un contesto di complessità sociale – come già osservato – dal dato meramente economico, degenera in una desertificazione di relazioni sociali significative ad ogni livello, si trasforma in povertà educativa e culturale, diventa l’innesco di processi di emarginazione da cui e’ difficile risalire, soprattutto in un mondo fortemente competitivo ed in rapida, perenne trasformazione.

La “società della conoscenza” è il terreno più fertile in cui possano mettere le radici percorsi involutivi del genere, dato che normalmente richiede performances più qualificate perché si possa reggere il passo di un mondo sempre più sofisticato. Ad essere colpiti sono  soprattutto i più giovani.

Qualunque vulnus ferisca  un soggetto adulto – analogamente, ad esempio, a quel che succede anche nel campo delle disabilità fisiche e sensoriali – resta, sia pure non sempre, circoscritto ad un determinato distretto funzionale. Al contrario, nell’età evolutiva, la plasticità dello sviluppo è tale per cui qualunque deficit, per quanto apparentemente parziale, invade l’autonomia funzionale complessiva del soggetto. In sostanza, nelle età minori della vita ogni battuta d’arresto si ripercuote sulle fasi subentranti dello sviluppo, secondo una dinamica pervasiva ed esponenziale. Interviene, cioè, una sorta di moltiplicatore intrinseco tale per cui ogni ritardo compromette la fase fisiologicamente successiva, in una catena di scacchi esistenziali che compromettono la maturazione e le attitudini funzionali della persona in modo spesso irrimediabile.

Per questo ogni forma di povertà, di disagio, di fragilità va combattuta soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza ed un Paese avanzato dovrebbe farsi carico di un ventaglio di politiche che, in ogni ambito, privilegino l’attenzione ai più giovani. Anche nel quadro del PNRR. In definitiva, peraltro, anche a prescindere dal dato economico, le condizioni esistenziali che esitano in fenomeni di esclusione – gli “scarti”, di cui dice Papa  Francesco – sono molteplici e configurano la formazione di sacche di sofferenza, dominate da una condizione di carenza “relazionale” che ferisce la persona nella radice ultima della sua fisionomia.

Si tratta di situazioni, tutt’altro che circoscritte in termini quantitativi, accomunate da una condizione di “fragilità” o di maggiore “vulnerabilità”. Condizione dovuta ad una pluralità di cause concorrenti, tra cui vanno annoverati  profili ambientali, culturali e sociali che afferiscono il contesto locale e solo a questo livello possono essere adeguatamente descritti, capiti ed analizzati  e sostenuti.

Difficilmente la lotta alle “povertà”, quelle tradizionale e quelle nuove, tipiche della nostra età, tra cui vanno considerate le varie forme di disagio giovanile – non ultima la tossicodipendenza  per quanto non se ne parli più o quasi, a riprova di un sistema sociale che “normalizza” anche le forme più radicali di esclusione – può’ essere affidata a politiche e ad apparati amministrativi dello Stato centrale. Oppure, in molti casi, delle stesse Regioni, che, per lo più, hanno riprodotto, su scala locale, quelle stesse bardature centraliste che esse stesse imputano allo Stato centrale.

E’ necessario, anzi indispensabile – e vale la pena osservarlo nella prossimità della consultazione amministrativa di ottobre – dare nuovo vigore alle autonomie locali. La cultura politica del cattolicesimo popolare ha sempre riconosciuto a queste ultime un valore preminente e la complessità che oggi scontiamo nel nostro  contesto civile aggiunge, in tal senso,  a favore una ragione in più.

Riscoprire e corroborare la vitalità delle istituzioni democratiche più immediatamente vicine al vissuto quotidiano delle persone e delle famiglie è di fondamentale Importanza per un percorso di ricostruzione dal basso, dall’esperienza quotidiana della vita, di quei nuovi modelli di convivenza che il nostro tempo, passato alla prova della pandemia, richiede. In questo senso – abbiamo cercato di dirlo in particolare con riguardo a Milano – le città, le aree metropolitane possono diventare laboratori a cielo aperto di una nuova cittadinanza, attiva, consapevole di sé, del comune orizzonte  di senso cui ognuno è chiamato a concorrere.

La “sussidiarietà circolare” è la chiave di volta di un rapporto nuovo e di reciproca integrazione tra servizi pubblici e mondo del volontariato e degli enti di Terzo Settore. Come non si stanca di suggerire Stefano Zamagni – anche in un recente articolo ospitato su queste pagine – si tratta di passare dal duo-polio “Stato Mercato” ad una più ricca articolazione che riconosca la “Comunità” quale soggetto altrettanto essenziale per lo sviluppo di una vita sociale pienamente rispettosa della dignità delle persone, quindi consapevole ed attenta ai loro limiti, ma altrettanto disponibile a riconoscere e valorizzare le loro attitudini e le loro potenzialità.

Ogni città è, a suo modo, un “unicum”: ha una storia, una cultura, tradizioni e stili di vita inconfondibili, memorie consolidate nel tempo, attestate da splendidi “centri storici”, mostra una “personalità” che segna, più profondamente di quanto non appaia, i costumi, gli abiti mentali che accomunano chi vi nasce.

Se vogliamo ricercare la misura di un nuovo umanesimo, la dimensione integrale di una umanità più consapevole di sé, più solidale, capace di ospitare ed accogliere le mille sofferenze che pur la attraversano, non possiamo prescindere dalla città come luogo in cui, come osservava il Cardinale Martini, ciascuno di noi incontrando gli altri scopre sé stesso.

Spetta ancora ai cattolici popolari rinverdire questo insopprimibile indirizzo di pensiero e di azione politica.

Domenico Galbiati

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