Volentieri riceviamo e pubblichiamo un intervento del prof. Giulio Prosperetti, Giudice della Corte Costituzionale, che affronta uno dei temi su cui da tempo abbiamo avviato anche noi la riflessione dedicata alla “rigenerazione” del sistema politico, istituzionale e dei partiti del nostro Paese.

Le profonde trasformazioni dell’assetto politico nel nostro Paese ci spingono a una riconsiderazione dei principi ispiratori del sistema di rappresentanza politica.

I partiti ideologici, all’interno dei quali si sviluppavano dibattiti e si componevano interessi, hanno lasciato il posto a sedicenti partitini, più simili a comitati elettorali che non a strutture organizzate capaci di realizzare progetti di governo anche a lungo termine, come appunto erano, nel bene e nel male, i vecchi partiti.

Nella situazione attuale sembra quasi che ogni leader voglia fondare un proprio partito e il dibattito e il compromesso interno sono sostituiti da inevitabili scissioni.

Partiti che aspirano a superare la soglia del tre per cento non possono realisticamente proporsi per il governo del Paese.

Ma il dibattito politico che non trova più la sua sede nei grandi partiti, non si realizza nemmeno all’interno del Parlamento, dove gli eletti risultano in pratica vincolati al rispetto delle direttive loro impartite dai rispettivi leaders che ne hanno promosso la candidatura.

Governo e Parlamento vengono così guidati da quei politici che hanno la maggiore visibilità mediatica e che esercitano il loro potere alla stregua di possessori di pacchetti azionari, commisurati al numero dei rispettivi parlamentari ad essi affiliati.

A questo punto bisogna forse domandarsi se i principi sui quali si fonda il nostro sistema di rappresentanza politica sia in qualche modo da ripensare.

Il singolo parlamentare, ai sensi dell’art. 67 della Costituzione, «rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Sono note le polemiche sul divieto di vincolo di mandato, e, infatti, nella logica “azionaria” di cui si è detto, la libertà che costituzionalmente spetta a ogni parlamentare consentirebbe di tradire il leader-padrone.

È di tutta evidenza che una simile concezione porta il Parlamento ad essere una mera istanza di ratifica di decisioni assunte in altre sedi.

La scelta verticistica dei candidati non sembra consentire un’adeguata rappresentanza di interessi ed anche il radicamento locale è del tutto eventuale.

La scelta del collegio sicuro porta i candidati dotati di maggiore visibilità a rappresentare territori spesso del tutto estranei alla loro esperienza di vita.

Le pluricandidature accentuano il problema in quanto l’elettore che esprime il consenso per un certo leader, in realtà, elegge il secondo in lista, spesso sconosciuto, e questo corrisponde non certo ad una rappresentanza territoriale, ma a una scelta semplicemente partitica, basata sulla designazione del capo dello pseudopartito.

Ora, il problema, a ben vedere, è proprio quello della valenza nell’attuale mutato contesto della rappresentanza territoriale espressa in collegi che, con la riduzione dei parlamentari, dovrebbero avere la dimensione ciascuno, per la Camera dei deputati, di circa centocinquantamila elettori.

Il dibattito che ha preceduto il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari si è incentrato anche sulla individuazione del numero ottimale di cittadini che potessero essere rappresentati dal singolo parlamentare eletto. Ma, tutta la discussione è apparsa datata e fuori contesto; i piccoli collegi avevano la funzione di consentire un contatto diretto tra il parlamentare e le istanze del proprio collegio e,in assenza degli attuali sistemi di comunicazione (media e social), la cura del collegio da parte del singolo politico comportava un attivo radicamento sul territorio.

Oggi, al contrario, le opzioni di voto sono fatte essenzialmente sulla scorta dell’adesione alle proposte dei leader di riferimento e raramente i cittadini ricordano i nomi dei parlamentari eletti nella loro circoscrizione.

È singolare che i collegi elettorali per le elezioni regionali, dove interessi territoriali dovrebbero essere più vicini alla sensibilità degli elettori e dove il governo del territorio è più rilevante, hanno normalmente la dimensione provinciale che è sicuramente più ampia di quella dei collegi della Camera dei deputati.

Il problema attuale risiede nel fatto che la rappresentanza politica da una parte rimane solo marginalmente votata alla  rappresentanza dei territori e, comunque, per la sua frammentazione, non è in grado di intercettare quegli interessi e quelle scelte di dimensione nazionale che invece dovrebbe investire l’eletto in quanto rappresentante della nazione. E’ questo un problema centrale che ha dominato gli studi politologici del secolo scorso, specie in Germania, con particolare riferimento alla dialettica tra la rappresentanza politica e la rappresentanza di interessi.

Ora , sono proprio le leggi elettorali a disciplinare quel mix di partecipazione tra i portatori di interessi particolari e le istanze politiche globali. Volendo esemplificare si potrebbe considerare che sarebbe più utile avere collegi più piccoli per le elezioni regionali e per quelli delle grandi città, così da poter rappresentare al meglio gli interessi locali mentre invece istanze di interesse nazionale per trovare idonea rappresentanza necessitano di un confronto in più ampie circoscrizioni.

È significativo che siano state ventilate proposte come quella di un Parlamento formato da deputati sorteggiati; ciò corrisponde ad una concezione che vede il Parlamento composto non da rappresentanti di specifici interessi, ma piuttosto assimilato ad una sorta di campione demoscopico.

In questa logica non ci sarebbe una sostanziale differenza tra gli eletti (pressoché anonimamente) nei diversi collegi e gli estratti a sorte.

Ora, tutto ciò è, comunque, sintomatico di una situazione di crisi della rappresentanza politica.

Non credo che possiamo più concepire la compagine parlamentare come una sorta di concentrato rappresentativo dell’italiano medio; credo che dobbiamo cominciare ad astrarci dalla logica settecentesca della rappresentanza dei territori, in una società globalizzata, attraversata da pulsioni ed interessi che trascendono normalmente la dimensione territoriale.

I parlamentari eletti con l’attuale sistema incentrato sulla rappresentatività territoriale non consentono all’elettore di indirizzare il voto a vantaggio di politiche, categorie ed interessi in ordine ai quali il parlamentare in quanto espresso da un territorio è tenuto ad esplicitare specifiche opzioni. Saranno poi i lobbisti con logiche opache ad indirizzare i singoli parlamentari verso gli aspetti più specifici del loro mandato politico., spingendoli ad operare scelte incommensurabili rispetto alle problematiche territoriali.

Se si vuole mettere l’elettore in grado di scegliere politiche nazionali (rapporti internazionali, il welfare, la sanità, la scuola, le professioni, la giustizia ecc.) non potrà mai essere la semplice rappresentanza territoriale ad esprimere candidati portatori di linnee politiche di livello nazionale o internazionale, se non come semplici gregari inquadrati nella disciplina del singolo partito.

Una riforma in linea con i tempi potrebbe prevedere ampie circoscrizioni anche pluriregionali con liste di candidati nelle quali potrebbero figurare anche portatori di interessi organizzati, capaci di farsi paladini di specifiche proposte e rappresentativi, quindi, non più tanto dei territori cui possono pensare le Regioni, ma piuttosto degli interessi correlati a un diverso nucleo valoriale.

Non a caso da più parti si invoca il ripristino delle preferenze nel voto per le elezioni parlamentari e, una tale soluzione correlata ad ampie circoscrizioni, senza i mini-collegi, potrebbe riportare il Parlamento ad un’assemblea di effettivo dibattito e di scelte consapevoli.

Giulio Prosperetti

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