Oggi ricorre il 44° anniversario della morte di Aldo Moro. “Tutto il suo agire, religioso, umano, culturale, politico è stato costantemente caratterizzato da un unico elemento: l’attitudine all’apertura, alla tolleranza, all’attenzione, al rispetto nei confronti di chiunque. Tutta la sua azione era quella di perseguire la realizzazione di una società più giusta costruita cristianamente a misura d’uomo e che risultasse dalla più vasta partecipazione popolare alla responsabilità della cosa pubblica, per dare alla base democratica dello Stato, come egli scrisse già nel 1962, più consistenza, più ampiezza, più solidità per farne lo Stato di tutti.”(Piersanti Mattarella). Oggi fa impressione rileggere il ricordo di un “Moro minore”, un Kennedy siciliano, dedicato al suo mentore politico, quasi un padre spirituale, nel tempo breve che precede il suo personale martirio, avvenuto a Palermo il 6 gennaio 1980 e oggi giudicato, anche da fonti giudiziarie, un turpe affare politico-criminale non restringibile al solo campo regionale.

Ogni anno dal 16 marzo, ricorrenza dell’eccidio e del sequestro di via Fani, al 9 maggio, data del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, si svolge una sorta di “memoriale” dei 55 giorni di prigionia che vengono riletti alla luce delle oltre 80 lettere scritte dal prigioniero e inviate alla famiglia, agli amici, e alle persone più influenti di quel tempo compreso il Papa Paolo VI. Eppure all’opinione pubblica, in larga parte, non è noto che il vero Memoriale Aldo Moro l’ha scritto nel lungo tempo del sequestro, rispondendo alle domande che i brigatisti rivolgevano al prigioniero nel contesto di un declamato e reso pubblico “processo del popolo” intentato a chi maggiormente era stato alla guida del sedicente “regime democristiano”. Ma le Brigate Rosse non hanno mai rese pubbliche le centinaia di pagine, rinvenute solo dattiloscritte in un covo milanese dagli uomini del Generale Dalla Chiesa e poi in un secondo tempo, a distanza di anni, fotocopiate da un testo manoscritto  da Moro, originale mai ritrovato. Nello sfondo di questo mistero avvennero gli omicidi di Mino Pecorelli, nel 1979 a Roma, sede della sua nota agenzia di stampa OP(Osservatore Politico) e , in terra siciliana, dello stesso Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982.

Il tempo ha fatto il suo corso e gli storici hanno molto contribuito ad illuminare i terribili anni 70 della nostra fragile democrazia. Guido Formigoni, autore della nota biografia, “Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma”, è convinto che non si possa separare la storia della statista pugliese dall’epilogo drammatico dei 55 giorni di prigionia e, in esso, dalla redazione del Memoriale. Miguel Gotor, autore insieme ad altri dell’ultima edizione critica del Memoriale, ha sempre definito quest’opera morotea come una radiografia monumentale del potere nell’Italia del secondo dopoguerra con i suoi successi e i suoi pesanti enigmi, in particolare segnati dal terrorismo di destra e di sinistra nella cornice della Guerra Fredda.

E anche la giustizia ha percorso il suo cammino sul “Caso Moro” e sulla strategia della tensione: 8 processi in sede penale, 4 Commissioni parlamentari d’indagine sul terrorismo e le stragi, una Commissione sulla P2, due Commissioni Moro. Resta ferma e inamovibile la convinzione di Tina Anselmi che dichiarò: “Non si può capire il caso Moro senza conoscere completamente il ruolo della P2”. Altrettanto espressiva la frase di un discorso di Gero Grassi, membro dell’ultima Commissione Fioroni: “Pasolini diceva- io so ma non ho le prove- noi diciamo che sappiamo ed abbiamo le prove del delitto di abbandono”. Era stato Carlo Bo, eminente Rettore dell’Università di Urbino, ad evocare in Parlamento il 9 maggio 1979 il termine “Delitto di abbandono” per classificare la morte di Moro.

Oggi siamo già più avanti nel corso della storia ed ebbe ragione Renato Moro nella cerimonia svoltasi nel 2016 al Quirinale per il centenario della nascita di Aldo Moro: è tempo di liberare Moro dal carcere brigatista, occuparsi di lui come politico ma anche come intellettuale, come giurista, come cristiano, come uomo. La sua è stata una personalissima coniugazione di religiosità e di laicità. Per chi segue questa traccia oggi nel pieno della guerra in corso nel cuore dell’Europa può destare stupore scoprire che il giovane professore meridionale, eletto alla Costituente, attento alla lezione di Dossetti ma anche a quella di De Gasperi, era diventato segretario nazionale della Democrazia Cristiana, poi artefice della svolta dei governi di centro sinistra e negli anni 70 Ministro degli Esteri e nuovamente Presidente del Consiglio. In questa veste e per conto dell’Europa Aldo Moro firmò nel 1975 l’Atto di Helsinki che diede vita anche all’OSCE e che fu siglato anche dalla Russia di Breznev. Raphael Caldera, leader venezuelano, fu presente all’Università di Bari nelle prime celebrazioni di memoria di Aldo Moro definendolo uomo di pace, simbolo della tolleranza e apostolo del dialogo.

Se la guerra è la più grave sconfitta della politica risulta utile porsi la domanda in che modo Aldo Moro intervenne sulla crisi del sud Tirolo raggiungendo poi l’accordo storico di Copenaghen. Si legge in qualche analisi della personalità di Moro che era ossessionato dall’idea della mediazione, sinonimo per altro del dialogo sociale richiamato dalla Fratelli tutti come il presupposto fondamentale della   migliore politica finalizzata alla ricerca del bene comune.

Quindi, la pace come presupposto e compimento della vita democratica, ispirata dalla giustizia, era sempre presente nelle categorie morali e politiche di Aldo Moro. E che questa vocazione dovesse essere perseguita anche “pagando di persona” lo spiegava in alcune lettere ai suoi studenti rimarcando che la vita democratica non è solo lo slancio di un momento ma va vissuta ogni giorno nella pratica dei valori fondanti del patto costituzionale.

Nel 2004, il Cardinale Bergoglio tenne una riflessione sull’azione politica intesa come mediazione durante un corso di formazione e riflessione politica dedicato ai chierici della sua Diocesi argentina: “Ovviamente il fare politica esige testimonianza, martirio; esiste una dimensione di martirio nella politica, dove uno sacrifica sé stesso per il bene comune. Qui si radica la differenza tra il mediatore e l’intermediario. Il politico è fondamentalmente un mediatore che ascolta la voce del suo popolo, scorge le vie praticabili e sa mediare, avanzando in vista del bene comune. Ma in questo mediare si logora e muore: il mediatore perde sempre, perde per far vincere il popolo, mette in gioco la sua vita nel lavoro politico e trae da qui la sua nobiltà”. E questa è stata la straordinaria avventura di Aldo Moro politico tutta spesa per l’allargamento della base democratica dello Stato repubblicano fondato sulla Costituzione affinché divenisse “lo Stato di tutti” e la patria non di pochi ma di tutte le persone.

Antonio Secchi

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