Un sistema “che tutto il mondo ci invidia”. E’ cosi che i Tedeschi definiscono, con la solita arroganza, la “dualelehrlingsausbildung”, il sistema di apprendistato misto scuola-lavoro. Un sistema, che come abbiamo visto in questi ultimi giorni, si è tentato in varie forme di imitare anche in Italia, con risultati però che il tragico evento verificatosi ad Udine a fine gennaio, hanno mostrato poter essere anche molto negativi, o peggio.
È facile trarre la conclusione, come qualcuno in Europa, non si è trattenuto dal fare, che un sistema concepito per la Germania – e che era sopravvissuto anche nella ex-DDR – difficilmente potesse, e possa ancora, essere applicato senza problemi in una realtà sociale e politica così diversa come quella italiana.
E’ chiaro che non sono le differenze di carattere nazionale – che immancabilmente sono state tirate in causa anche da qualche nostro (ahimè) concittadino che crede di acquistare meriti presso gli stranieri denigrando il proprio paese – quel che impedisce questa trasposizione. E che un presunto “pressappochismo italiano” sia stata la causa del tragico evento in cui un ragazzo ha avuto il cranio fracassato da una trave d’acciaio.
Resta però il fatto che le aziende tedesche sono avvezze ad avere tra i loro dipendenti numeri significativi di ragazze e ragazzi che dovrebbero frequentare la scuola media, ma che invece per tre o anche quattro giorni alla settimana lavorano in fabbrica per un salario praticamente simbolico. E quindi sanno come evitare di affidare loro compiti o metterli in situazioni che possano creare incidenti ed intralci o interruzioni all’attività produttiva.
Una tradizione antica, anzi arcaica
Per di più, in molte aziende tedesche vige la mitbestimmung, cioè la collaborazione alla gestione da parte dei rappresentanti lavoratori, i quali – non potendo in realtà incidere sulle politiche aziendali – si dedicano soprattutto a vigilare sui modi di organizzazione del lavoro, e quindi anche a sorvegliare che gli apprendisti, con la loro inesperienza, non mettano in pericolo se stessi e gli altri.
Ciò non significa però che il dualelehrlingsausbildung possa davvero essere considerato quell’invidiabile modello da imitare che i Tedeschi immaginano. Anche se c’è stato, nel mondo industriale italiano qualcuno cui è apparso interessante introdurre tale sistema in Italia, come metodo per ridurre il costo del lavoro per le imprese.
Introdotto nella legislazione prussiana con la Deutsches Handwerkerschutzgesetz nel 1897, nel periododella reazione post-bismarkiana, al fine di accrescere il consenso presso gli ambienti reazionari dediti all’artigianato esso è rimasto dopo di allora sostanzialmente immutato nei suoi tratti fondamentali (Vedasi, Kathleen Thelen CLICCA QUI).
Iper-specializzazione: vantaggi e limiti
Tra questi tratti, di notevole interesse è quello relativo ai contenuti e ai modi in cui avviene l’addestramento professionale nei luoghi di lavoro. Tali contenuti, infatti, sono talora estremamente specializzati, concernono specifiche lavorazioni, e non comprendono – come avviene, o dovrebbe avvenire in un istituto tecnico – corsi generali di chimica, fisica eccetera. Cioè quegli insegnamenti che renderebbero “fungibile” il lavoratore così formato, e consentirebbero all’apprendista un successivo accesso a posti di lavoro diversificati, e meno limitati all’ azienda o allo specifico àmbito produttivo in cui è avvenuta la “dualelehrlingsausbildung”.
Insomma, l’addestramento tende soprattutto a “fidelizzare” il lavoratore all’azienda, rendendo improbabile che esso emigri verso un’altra impresa, e così valorizzando al massimo l’investimento effettuato nella formazione. Una strategia, che la performance dell’industria tedesca ha dimostrato funzionare, ma da cui poco c’è da imitare sotto il profilo dei diritti del lavoratore, visto come persona e come cittadino.
Senza limiti di età
E’ questo, inoltre, un aspetto limitativo che concorre a spiegare la grande “fedeltà” dimostrata, in Germania, dal dipendente verso la propria azienda. Una “fedeltà” che – quando si verificano problemi di mercato per il datore di lavoro – spinge i sindacati anziché a favorire la piena utilizzazione del capitale umano in altre aziende più efficienti e facenti parte dello stesso “settore” inteso in maniera più ampia, ad accettare o addirittura promuovere forme di “disoccupazione condivisa” in cui, per evitare licenziamenti, tutti i lavoratori subiscono riduzioni di orario e di stipendio.
Un altro aspetto nel sistema tedesco dell’apprendistato, che appare oggi molto preoccupante è quello relativo all’inesistenza di limini di età per le persone cui il metodo può essere applicato. Nel 1969, quando venne introdotto il Berufsbildungsgesetz, che omogeneizzò nella Germania Occidentale (ma della Germania comunista, ripetiamo en passant, il sistema era sostanzialmente lo stesso) la legislazione sull’educazione professionale – di competenza dei singoli Lander, e in cui hanno voce in capitolo anche i sindacati, le associazioni padronali e le camere di Commercio – l’età degli studenti-lavoratori era tra i 15 e i 25 anni.
Successivamente, con l’ampliarsi dei flussi di immigrazione e con la diversificazione dei paesi di origine, il limite superiore è andato progressivamente diventando più alto, cosicché oggi si possono incontrare, in fabbrica, uomini sui trent’anni che lavorano per una frazione del salario percepito dai loro colleghi, e che, per un giorno a settimana, ricevono una assai rudimentale educazione generale.
Ma ancor più notevole è ciò che si verifica all’altro estremo della classe d’età cui si applica la “dualelehrlingsausbildung”, e che interessa i ragazzi e le ragazze della scuola dell’obbligo. Qui il limite – non essendo stabilito dalla legge – è andato infatti abbassandosi. Cosicché è oggi assai frequente che la decisione se proseguire gli studi che possono portare fino all’università, ovvero precludere per sempre questo sbocco sociale, interessa soggetti che hanno attorno agli 11 anni, in qualche caso anche meno.
Chi decide sul destino
Ma ancora più degna di considerazione è la risposta al quesito che a questo punto sorge naturale: chi prende questa definitiva decisione sul destino di un minore? Ebbene, il ruolo essenziale pare sia in questo caso tenuto essenzialmente dal maestro, che viene così a giudicare chi, tra i suoi scolari, sia – tanto per usare parole della Costituzione italiana – “capace e meritevole”, e chi no.
Ci si può, a questo punto, maliziosamente chiedere se – in qualche caso – non giochino in questa decisione anche alcune caratteristiche personali dello scolaro; ad esempio se sia figlio di un immigrato, oppure no. Un interrogativo che ne pone subito un altro. E cioè se siano davvero nel giusto non tanto i molti Tedeschi i quali sono convinti che tutto il mondo invidi la loro lehrlingsausbildung, il sistema germanico dell’apprendistato, ma quei pochi Italiani che su tale sistema hanno provato, pur con i loro limitati mezzi, a informarsi, e quelli che – probabilmente non sapendone nulla, ed ancor meno interessati a saperne qualcosa – ritengono con granitica certezza che esso vada introdotto nella “obsoleta” Italia. E che sia un modo per superare i loro personali complessi di inferiorità e sentirsi finalmente “Europei”.
Giuseppe Sacco