La governabilità dei sistemi sociali complessi dipende in larga misura non tanto, o almeno non solo, da più o meno appropriate architetture istituzionali, ma, in larga misura, dal grado di coinvolgimento attivo, di consapevolezza e, dunque, di partecipazione del cittadino singolo, oppure associato nelle aggregazioni cui concorre, alla vita democratica del Paese.
Allargare questo coinvolgimento – delle più giovani generazioni, in primo luogo – dev’essere uno degli obiettivi di cui un partito di ispirazione cristiana deve farsi carico. Anzitutto, come presupposto alla formazione di una nuova classe dirigente. Sapendo che non si tratta di una sorta di operazione da condurre “una tantum”, cioè della sostituzione dei vecchi quadri politici degli ultimi trent’anni, o addirittura ancora precedenti, con una nuova leva di aspiranti inamovibili.
Oggi la storia ha assunto un ritmo accelerato, le trasformazioni incalzano di generazione in generazione e una classe politica che non fosse in grado di leggere, o ancora prima di intuire, le innovazioni che via via subentrano finirebbe inevitabilmente per incagliarsi dentro corto-circuiti concettuali che, nella misura in cui perdono il contatto con la realtà viva e mutevole, sono indotti a giustificare sé stessi in astratto, così da incaprettarsi da soli in una rigida opzione ideologica.  Cioè, anziché adeguarsi alla realtà, la deformano pur di piegarla ai loro schemi preordinati, essendo gli unici di cui dispongono.
In secondo luogo, la partecipazione attiva alla vita del proprio contesto sociale, da quello più ravvicinato agli ambiti progressivamente più ampi, non può ridursi ad un dato meramente intellettualistico, bensì ha a che vedere con il “vissuto”, l’esperienza sul campo, il dato esistenziale che, a sua volta, rinvia ad una assunzione di responsabilità personale e diretta nei confronti degli eventi del proprio tempo.
E’ la persona, nella sua irriducibile originalità, ad essere investita di questo compito che non è, peraltro, solipsistico ed individuale, ma tanto più vale quanto più concorre a disegnare l’ orizzonte della comune appartenenza alla collettività di volta in volta considerata.
La “partecipazione” può assumere varie forme da quella culturale, affidata ad un contributo di riflessione e di pensiero; a quella sociale che scaturisce direttamente sul campo, ad esempio dall’impegno sindacale o di categoria; da quella che si offre nelle mille forme del volontariato; a quella “competente” che si esprime attraverso le attitudini professionali eccellenti di cui molti sono portatori. Anche a tale proposito vale quel pluralismo che rappresenta un tratto distintivo irrinunciabile e, in definitiva, una risorsa del nostro tempo.
Ovviamente, campeggia su tutte la forma espressamente “politica” di partecipazione alla vita della collettività. Il che, però, oggi non può più avvenire solo nella modalità classica della militanza attiva in un partito politico, ma, in una prospettiva più vasta, attraverso l’attitudine a “pensare politicamente”, come sosteneva Giuseppe Lazzati, padre costituente e Rettore della Cattolica.
Ma cosa si deve intendere per ” pensare politicamente”? Anzitutto, un pensare in termini di responsabilità, non in modo accademico e disincantato. Insomma, prendere la politica – per quanto la vita nel suo concreto svolgimento, sia più ricca, più creativa e sorprendente di quanto non sia in sé la politica – con vero impegno, sapendo che si tratta, perlomeno, di un ambito in cui ne va della propria coerenza, di quella corrispondenza tra ciò che si crede e ciò che si fa, che la eleva molto al di sopra di un salottiero gioco di società. Insomma, con la politica non si scherza; per quanto distacco o addirittura discredito possa soffrire, non è un “divertissement”, neppure nel senso pascaliano del termine, ma una cosa terribilmente seria.
“Pensare politicamente” significa anche saper leggere, conoscere e comprendere, soppesare criticamente il corso degli eventi, saperli collocare nel decorso temporale che li ha generati ed, anziché rattrappirli nella stretta del momento contingente, proiettarli sulla speranza di un domani possibile. In fondo, possiamo paragonare la politica ad un “ipertesto”, in cui si va ben oltre l’interpretazione testuale e di senso comune, bensì leggendo tra le righe, in una sorta di metalettura, si colgono i rimandi, le analogie e le corrispondenze, i nessi causali o piuttosto le opposizioni polari tra diversi versanti che si offrono ad una comprensione libera e responsabile di cui ognuno risponde anzitutto a sé stesso. Certo, oltre che alla scuola ed all’insegnamento di educazione civica, spetta anche ad un partito, ma non nel senso dell’indottrinamento o del proselitismo, offrire strumenti per un approccio costruttivo alla politica, anzitutto alle più giovani generazioni.
In fondo, la politica è bene scoprirla da ragazzi, quando, anche da un punto di vista neurobiologico, quella plasticità mentale che pur si conserva anche da vecchi, è sicuramente più vivace e più elastica. Del resto, la politica cos’è se non un linguaggio con un proprio lessico, una propria grammatica ed una sintassi? Come tutte le lingue, se s’imparano in età avanzata magari consentono di comporre proposizioni corrette sul piano dell’analisi logica, ma la prosodia sarà sempre carente, quindi la parlata spesso inceppata, mai del tutto fluente e la stessa fonetica piuttosto monocorde e poco espressiva.
Chi ha militato a lungo in uno dei vecchi partiti della Prima repubblica sa bene quale differenza vi fosse tra amici anche culturalmente semplici, ma addestrati al “pensare politicamente”, magari grazie a precoci esperienze sindacali, e professionisti illustri che approdavano alla politica con il sussiego della loro indubbia competenza tecnica, ma in un’età tale per cui in nessun modo l’avrebbero mai parlata come fosse la loro seconda lingua-madre. Insomma, anche qui “largo ai giovani” ed aiutiamoli a prepararsi fin da queste prime età della loro vita ad una piena assunzione delle loro responsabilità politiche e civili.
Domenico Galbiati

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