Le vicende sui dazi imposti da Trump, la loro irrazionalità e, quindi, l’evidente mancata valutazione delle conseguenze, a partire per il suo elettorato, i consumatori americani e il tracollo delle borse, hanno fatto definitivamente finire alcuni miti oltre ad aver incrinato nel profondo degli animi l’immagine degli Stati Uniti anche nel mondo occidentale.

Il primo, è quello dello stesso Donald Trump. Giunto ad annullare i balzelli esponenziali messi su importanti e necessari prodotti che fanno oramai parte della vita quotidiana di tutti, a partire dagli americani.

Così, all’improvviso, i dazi sui taluni prodotti cinesi sono stati cancellati come hanno fatto sapere, quasi alla chetichella, l’US Customs and Border Patrol-  la dogana e la polizia di frontiera statunitense- che a borse chiuse, nella tarda serata di venerdì, hanno pubblicato un avviso di esenzione per iPhone ed altri dispositivi e componenti elettronici, tra cui semiconduttori, celle solari e schede di memoria.

Una debacle clamorosa, insomma, che mette in discussione l’intera strategia del Presidente americano. Si tratta, infatti, di quei materiali e prodotti che servono alle aziende tecnologiche che dominano il mondo a condizione che i loro prezzi non vadano alle stelle.

Purtroppo c’è chi ancora lo coltiva, e sicuramente sentiremo lo stesso Trump continuare con le sue grida minacciose contro il resto del mondo, ma il sovranismo riceve da questa drammatica esperienza un colpo importante. A conferma che quando un sovranista ne incontra altri gli può sempre finire male. Anche se è il Presidente degli Stati Uniti. In questo caso ha trovato la fermezza della Cina con una risposta senza tentennamenti. Contro dazi sui prodotti, ed intervento sui Buoni del tesoro USA. In questo trovando la sponda con altri fondi sovrani esteri. Quelli cioè che detenevano, alla fine del 2024, 8,5 trilioni di dollari – pari al 30,2% dei titoli del debito pubblico americano trattati sul mercato secondario. Più della metà è in mano a risparmiatori privati, 3,78 sono nei portafogli di enti ufficiali o governativi stranieri.

Trump si è evidentemente fidato del proprio carattere e dei pessimi suggerimenti della sua corte di consiglieri che, certo, appiano non all’altezza e non lo aiutano. Le conseguenze sono che gli stessi mercati finanziari americani non si fidano più di lui e della sua strategia per tornare a “fare ricchi gli americani”. Wall Stret, infatti, con l’indice S&P 500,  il Down Jones e, soprattutto il Nasdaq, gli hanno voltato le spalle nonostante i suoi repentini ripensamenti. Lo stesso hanno fatto le borse del resto del mondo colpendo il suo punto più debole. Cioè la certezza della crescita dell’inflazione e dei costi del finanziamento sui mercati.  Inoltre, il piano di Trump, cioè l’idea di far traslocare negli Usa le aziende estere intenzionate a mettersi al riparo dall’innalzamento delle barriere doganali, unilateralmente da lui deciso, ha bisogno di quei tempi lunghi che non possono essere assicurati da un’amministrazione a rischio di ritrovarsi senza il pieno controllo di entrambi i rami del Congresso già tra circa 18 mesi. Senza inoltre considerare che il trasferimento di talune produzioni negli Stati Uniti pongono problemi di non facile soluzione. Sia per quanto riguarda il reperimento della mano d’opera di qualità necessaria, sia per i suoi costi. Cosa che è stata alla base di tante delocalizzazioni di aziende americane ed europee in paesi a più basso costo del lavoro.

A nessuno è sfuggito l’andamento dei recenti voti locali nella Florida e nel Wisconsin dove è stato netto il calo dei consensi per i repubblicani. E non ci sarebbe stato da meravigliarsi se si fosse trasformato in un autentico tracollo nel caso in cui  le due votazioni per la Camera dei rappresentanti in Florida si fossero svolte dopo e non prima il crollo delle borse mondiali.

Con Trump, insomma, cade il mito della politica e della guida della cosa pubblica sulla base della “semplificazione”, delle analisi ideologiche e del rifiuto di misurarsi con la complessità. Cade anche il mito recentemente diffuso della fine della globalizzazione che, invece, non solo non è mai finita, ma è stato ampiamente dimostrato proprio nel corso della scorsa settimana, ha oramai permeato un ambito molto più ampio di quello del mero scambio delle merci.

Sia lo scontro con la Cina, sia il mancato arrivo di risultati nel caso del conflitto in Ucraina sfata anche la leggenda sui rapporti personali tra i capo di stato che è diventata una moda illusoria anche nel nostro Paese. Una cosa che non è mai stata vera neppure tra Hitler e Mussolini o tra Churchill e Roosevelt, tanto per citare alcune delle relazioni che hanno segnato una buona parte del  ‘900. Quel che conta sono le dinamiche dei paesi, delle loro economie e del mutare del loro posizionamento in un mondo che cambia.

La risposta di Trump a queste mutazioni, ma non solo la sua, perché ad essa sono omogenee le stesse che provano a dare altri sovranisti europei, compresi i nostrani, ha la faccia rivolta al passato e questo è il guaio peggiore.

Noi italiani siamo stati i primi a toccare con mano la fine di un altro luogo comune: quello dell’imprenditore in politica. L’illusione, cioè, che sia automatico il fatto che il successo negli affari, comunque sia stato ottenuto, possa essere trasferito nella guida della cosa pubblica. Un’idea che non tiene conto di quanto  la complessità della politica e della guida di governo porti in una dimensione molto più dilatata, mutevole e dalle infinite sfumature. La sconfitta di cinque anni fa, inoltre, è stata vissuta da Donald Trump come un’onta personale da lavare ad ogni costo. E i risultati sono il ritrovarsi, egli, già al minimo della popolarità in quello stesso paese che lo aveva rimandato alla Casa Bianca solo quattro mesi orsono.

L’imprevedibilità dell’uomo ci dice solo che non possiamo stare tranquilli. Perché la fine del mito, talvolta, fa perdere ancora di più la testa.

Giancarlo Infante 

 

 

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