“Si tratta di una questione su cui discutere, e discutere in maniera approfondita…. senza partire con la certezza che l’idea necessariamente funzionerà; perché l’economia è dannatamente complicata, e bisogna tenere conto di tutti i paesi”.

Sono parole di prudenza; e sono le parole con cui il ministro degli affari esteri del Sudafrica, Naledi Pandor, ha accompagnato l’annuncio ufficiale – da parte dello stesso governo di cui fa parte – del fatto che al prossimo vertice dei Brics, che si terrà ad agosto sotto la presidenza sudafricana, “uno dei principali argomenti in discussione sarà la creazione di una valuta comune per i cinque paesi emergenti”.

L’annuncio non sembra infatti aver molto allarmato Voice of America, il canale radiotelevisivo federale degli Stati Uniti, che si è limitato a riportare il commento di un noto economista sudafricano, secondo il quale l’idea che questa sorta di equivalente dell’Euro su scala assai più ampia e dalla portata politicamente assai più rivoluzionaria, “non poggia su nessun dato economico fondamentale di cui io sappia”.  Il Sudafrica, “non può certo giocare un ruolo così importante. La sua è un’economia molto piccola ed aperta, con pochissime riserve, esposta all’influenza di fattori globali. La Cina potrebbe forse averne la capacità, ma la disponibilità delle autorità cinesi a lasciare fluttuare liberamente la loro valuta e [al rischio] di perderne il controllo è pressoché nulla”.

 Un’ aspirazione rivoluzionaria

Sarebbe difficile non condividere lo scetticismo sulle possibilità che le discussioni programmate per il vertice di agosto, per quanto approfondite, possano tradursi a breve in un risultato così ambizioso. Eppure, sarebbe altrettanto sbagliato, e non privo di conseguenze negative, dubitarne troppo apertamente o, peggio, sorriderne. Perché si tratta una aspirazione molto diffusa ed assai sentita in quella parte del mondo che viene talora chiamato the Rest, cioè tutto quell’enorme insieme di paesi e popoli che non fanno parte nel cosiddetto West. Il quale ultimo si riduce in definitiva all’America, all’Europa occidentale e – forse – al Giappone.

L’ipotesi di una moneta comune verrà dunque probabilmente affrontata come un progetto rivoluzionario dell’ordine mondiale, ma necessariamente a lungo , indefinito termine. E ciò anche se oggi una riflessione sull’ordine mondiale appare di piena attualità, non solo dal punto di vista dell’Ucraina e della Russia, ma come uno dei vari grandi temi – alla pari del riscaldamento globale, o dell’intelligenza artificiale – che si impongono anche all’attenzione di quei paesi che non sono direttamente coinvolti nella guerra che si combatte in Ucraina, ma sul cui destino l’andamento del conflitto armato non mancherà di pesare.

Che sono poi i paesi che compongono quel “Global South” che Putin cita spesso nei suoi discorsi, e di cui chiede il sostegno, contrapponendolo al cosiddetto “Occidente complessivo”. Quel Global South, sui cui paesi componenti egli conta – a meno che la Russia o, come è probabile, il suo destino personale non escano travolti dalla guerra –  di avere in futuro stabili rapporti di solidarietà e collaborazione politica, per costruire un diverso, e non più americano-centrico, ordine mondiale.

I media italiani, della presidenza sudafricana dei Brics, non hanno parlato molto; anzi si dovrebbe dire che non ne hanno parlato quasi per niente. Eppure, nella politica estera di Pretoria, qualcosa di significativo si è verificato, in questi ultimi mesi, e di di una certa importanza anche per i paesi non direttamente coinvolti nella bufera della guerra. E per chi, come una non trascurabile parte dell’opinione pubblica italiana, che più volte si è espressa a favore di un negoziato.

Già nel febbraio 2022, il governo di Pretoria si era infatti rifiutato di condannare l’invasione dell’Ucraina, affermando di voler rimanere neutrale e di preferire, come strumento per porre fine alla guerra, il dialogo anziché la vittoria militare di uno dei due campi. E non solo il Sudafrica non ha applicato le sanzioni volute da Biden e fortemente sostenute dalla von del Leyen, ma – dopo ben un anno di guerra guerreggiata – non si è tirato indietro quando si è trattato di condurre nell’Oceano Indiano esercitazioni militari navali congiunte assieme a due altri membri del gruppo Brics, e cioè con la Russia e la Cina. Anzi, ha risposto alle proteste dei paesi occidentali reclamando il proprio diritto a sperimentare nuovi metodi e strumenti di difesa assieme ai paesi che – a giudizio di Pretoria – sarebbero i più avanzati in tale settore.

Per “iniziativa della parte africana”

Anche gli sviluppi più recenti confermano questo questa scelta di campo.  E ciò proprio in un momento in cui gli Stati Uniti, per esplicita affermazione dell’Ambasciatore a Pretoria, Ruben Brigety, accusano il Sudafrica di “tradimento”, per aver fornito armi alla Russia, “un Paese che da più di un anno sta conducendo un’offensiva militare contro l’Ucraina”.  Pare infatti che una nave russa, la Lady R, abbia fatto scalo nella principale base della marina militare del Sudafrica e caricato delle munizioni. Episodio peraltro non smentito dal Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, che ha promesso lo svolgimento di un’inchiesta.

C’è stato poi, pochi giorni fa, un comunicato emesso dal Cremlino, che – pur non facendo menzione della protesta americana – ha dato notizia di una conversazione telefonica tra i Presidenti dei due paesi tenutasi venerdì scorso, 12 Maggio 2023, ed ha sottolineato molto chiaramente come essa abbia avuto luogo “su iniziativa della parte africana”. E ha anche fatto sapere che i due leader avrebbero “espresso la volontà di accentuare ulteriormente le relazioni reciprocamente vantaggiose in vari settori”,

Si è trattato di un segno evidente della volontà del governo russo di dare visibilità internazionale ai rapporti col Sudafrica, e di farne anzi un punto politico. Il che viene esplicitato dall’affermazione che Mosca e Pretoria continueranno a “coordinarsi strettamente nella preparazione di importanti eventi multilaterali”.

Tra questi c’è ovviamente il secondo vertice multilaterale Russia-Africa previsto per la fine di luglio a San Pietroburgo, una città in definitiva non lontana dal fronte della guerra guerreggiata. Ma c’è anche il vertice dei Brics che si terrà in agosto a Johannesburg, in Sudafrica; un’occasione in cui si potrà forse misurare fino a che punto vorrà spingersi Pretoria nello sfidare l’Occidente, qualora dovesse accogliere Putin. Dando così prova di considerare il mandato di cattura internazionale emesso nei confronti del Presidente russo semplicemente come un altro esempio di quello che il Papa ha definito l’abbaiare della Nato contro la Russia.

Sarebbe questa una scelta indubbiamente impegnativa tra Mosca e Washington, qualora Putin manifestasse il suo desiderio di essere presente. Soprattutto una scelta i cui effetti non si limiterebbero ai soli rapporti bilaterali dato che verrebbe dal paese, il Sudafrica appunto, che ha preso quest’anno il posto della Cina alla presidenza di Brics.

In questo senso, un altro e non trascurabile elemento di novità sta nel fatto che, durante la conversazione telefonica con Cyril Ramaphosa, Vladimir Putin si sarebbe detto favorevole alla “partecipazione di un gruppo di leader africani” alle discussioni sulle “prospettive di risoluzione del conflitto ucraino”. Un’ipotesi, quella di tale partecipazione, certamente non improvvisata, né avanzata a casaccio; ma che ha anzi già circolato negli ambienti internazionali prima che il Presidente russo la facesse sua.

Un intervento dei più deboli

Si tratta di una proposta certamente suggestiva, e molto spendibile sul piano della propaganda, quella di una mediazione promossa non già da una potenza grande ed autorevole, ma da una folla di Stati piccoli, deboli, e fatalmente destinati a pagare il prezzo più alto nel caso di un conflitto generalizzato. Di una proposta, certo, non facile da tradurre in realtà, data la molteplicità e la diversità dei paesi dell’Africa.

Ma si tratta di una proposta che indica – da parte di un certo numero di questi paesi, che avvertono dolorosamente di essere stati quasi sempre oggetto della storia, o al massimo di avervi partecipato come semplici “ascari” delle potenze europee – un comprensibile desiderio di svolgere un ruolo proprio, un’ambizione ad esserne finalmente anche soggetto della propria storia e del proprio destino. Così come si tratta, da parte russa, di una proposta che potrebbe offrire la possibilità di trarne profitto a fini immediati, per cercare una via d’uscita dall’imbroglio ucraino in cui ha finito per restare imprigionata.

L’idea che la contrapposizione tra Occidente e “Sud del mondo” non è certo nuova nel contesto internazionale. Al contrario! Se ne è parlato moltissimo nel secolo scorso, prefigurando addirittura il prossimo avvento di un Nuovo Ordine Mondiale. Ma essa si presenta oggi in forme profondamente diverse da quelle del passato.

Questo tipo di contrapposizione, tra Global South ed “Occidente collettivo”, differisce molto dalla situazione che si creò all’indomani della crisi del petrolio del 1973, quanto nella politica internazionale di molti paesi apparve la tendenza – che in moltissimi casi era soltanto un’illusione – di emulare l’esperienza dei paesi produttori di greggio. L’obiettivo dichiarato, ma ingenuo, era quello di creare una situazione in cui la creazione di un cartello per ciascuna delle specifiche materie prime avrebbe rafforzato la posizione dell’insieme dei paesi produttori.

Ciò non si verificò mai in concreto. Alcune organizzazioni create sul modello dell’OPEC – ad esempio quella dei paesi produttori di rame – si rivelarono potenzialmente così pericolose da provocare, come nel caso del Cile, un colpo di stato e la fine della democrazia.  Altre, come quello dei paesi produttori di banane, si rivelano composte di così tanti Stati membri, e da Stati così piccoli, da risultare totalmente inefficaci.

Ma non si torna alla Guerra fredda

Il Global South di cui parla Putin – e di cui i Brics a guida sudafricana potrebbero forse preannunciare le caratteristiche – è peraltro anche assai diverso dallo schieramento che si era creato a partire dal 1955, dopo la frammentazione dell’impero coloniale britannico, e che prese la forma del Movimento dei Non Allineati, cui aderirono quasi tutti paesi sottosviluppati. E che riuscirono, grazie ad esso, a mantenere un atteggiamento di neutralità rispetto conflitto est-ovest dell’epoca, cioè al conflitto tra due blocchi militari, entrambi composti principalmente da paesi industriali e di antica indipendenza, guidati rispettivamente dagli Stati Uniti dall’Unione sovietica.

Lo schieramento “del Sud” la cui quasi spontanea costituzione appare oggi come una possibile conseguenza della guerra in atto in Ucraina, include invece anche i due principali paesi di quello che fu il blocco comunista, da cui i “non allineati” el secolo scorso volevano probabilmente distinguersi almeno altrettanto di quanto essi non volessero distinguersi dal blocco occidentale, dove erano presenti gli ex-colonizzatori.

Lo schieramento dei Brics comprende infatti tanto la Cina quanto la Federazione russa, quell’erede mutilata dell’Unione sovietica in cui la maggioranza dei Russi, e sempre più lo stesso di Putin, sembrano rifiutare di riconoscersi a pieno. Ed appare come uno schieramento per il quale, effettivamente, il principale strumento di successo sarebbe oggi – dopo trent’anni di globalizzazione e di crescita che è consistita principalmente in una razionale divisione del lavoro fondata sulla qualità e sul costo delle risorse umane – la creazione di un comune mezzo di scambio e di integrazione commerciale internazionale, diverso dal dollaro americano, che viene visto come uno determinante strumento di egemonia.

In questo quadro, tutto il parlare che si fa di “nuova guerra fredda” finisce perciò per trascurare le differenze del tutto fondamentali rispetto alla situazione odierna delle contrapposizioni che – a livello planetario – abbiamo conosciuto negli anni che corrono tra la fase post-bellica del 1945-1947 e quella post-sovietica del 1989-91. Differenze che sono – almeno – due.

Due storiche differenze

La prima differenza rispetto al passato è che, dopo il collasso socio-economico e soprattutto ideologico del “socialismo reale”, ci sono in questa fase al mondo solo due possibili “blocchi” : un Ovest dove, sotto la leadership dagli Stati Uniti, è in corso un forte riflusso anti-globale e un South, tendenzialmente gravitante su Pechino, cui il trentennio globale appare invece in una luce assai positiva.

Tra questi due gruppi di paesi, il secondo – che potenzialmente potrebbe coincidere co, e che certamente include al suo interno l’intero ed assai significativo gruppo dei Brics – appare oggi molto più consapevole dei benefici generati della globalizzazione, che in trent’anni ha portato fuori dalla miseria estrema circa un miliardo di esseri umani, soprattutto in Asia. E sembra altrettanto conscio dello stretto rapporto e talora addirittura del nesso causale che è invece sempre esistito tra tendenze autarchiche e tensioni internazionali di tipo politico e bellico, e  viceversa. Il che rende importante – in un’ottica che riconosca al metodo del negoziato e all’obiettivo della coesistenza una vera e non solo demagogica priorità – che in questo secondo anno di guerra durante il quale la presidenza dei Brics tocca al Sudafrica, il gruppo mantenga – anche nei rapporti con la Russia, che pure ne fa parte – la stessa linea di prudenza che lo ha sinora caratterizzato, durante la presidenza cinese.

La seconda differenza rispetto al passato sta nel fatto che non esistono più vere discriminanti ideologiche – anzi quasi teologiche, come era quella relativa alla proprietà privata dei beni di produzione – quali quelle che invece erano prevalenti  prima delle riforme di Deng Xiaoping in Cina e della “transizione” avvenuta nel blocco dell’Est durante i durissimi anni di Eltsin. E che non esiste oggi un’analisi univoca ed accettata della società nata dalla globalizzazione e dei suoi mali, veri o presunti che siano.

L’attuale situazione politico-militare è resa più complessa dalle differenze interne a ciascuno dei due campi, soprattutto per quel che riguarda l’analisi dei valori che sarebbero da promuovere in un mondo “post-globale”. Valori che vengono presentati come tanto importanti da valere anche il anche il rischio di una “guerra santa” e che risultano, quasi paradossalmente, molto simili, sia che vengano predicati da uno o dall’altro dei due “centri di pensiero” che sono parte integrante – centri secondari, ma non trascurabili – di ciascuno dei due blocchi: vale a dire a Mosca e a Varsavia. Laboratori politico-intellettuali di punta rispettivamente nel Global South e nello “Occidente collettivo” e parimente animati da forti e pericolose tendenze identitarie, bellicose e revansciste rispetto a torti – non importa se veri o presunti – subiti in passato.

Tendenze che hanno già portato la Russia a quello che si è rivelato un tragico errore di valutazione, la cosiddetta “operazione speciale” in Ucraina. E che rischiano ormai di portarci tutti, Americani come Europei, Cinesi come Russi, non già ad una nuova alla Guerra Fredda, bensì alla guerra guerreggiata ed allo scontro totale.

Giuseppe Sacco

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