Nella Banca dati del Senato è stato inserito il contributo dei vescovi siciliani alla discussione parlamentare sul Disegno di Legge sull’autonomia differenziata che porta la firma del Ministro Roberto Calderoli (CLICCA QUI). La Cesi, la Conferenza episcopale siciliana, porta così il proprio contributo nel corso delle audizioni e la raccolta di orientamenti e in merito ad una proposta che fa molto discutere ed anima, giustamente, il dibattito politico  del Paese.

I vescovi siciliani offrono le proprie osservazioni con il seguente documento.

 

OSSERVAZIONI AL DISEGNO DI LEGGE N. 615 presentato dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie (CALDEROLI) recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai
sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

La Costituzione, all’articolo 116, contempla la possibilità che le regioni possano conquistare un po’ più di autonomia rispetto alle altre sulla base di un percorso definito, un modello che deriva dal testo. Alcune regioni, è noto perché inserito nell’agenda politica del governo, hanno avviato un percorso finalizzato a conquistare queste nuove dimensioni di autonomia.

Non è, infatti, un caso che questa proposta provenga da territori in cui insiste un circuito finanziario particolarmente stimolante, che non presenta problemi significativi, quindi tutta la questione oggi ruota intorno ai risvolti economici che possono influenzare questo percorso.

E’ chiaro che il reddito prodotto in alcuni territori è di gran lunga superiore a quello di altri e l’individuazione di questa ricchezza divide ancora una volta  richiamando il problema del “Meridione”. La distribuzione di queste nuove forme di autonomia passa attraverso la definizione dei LEP – Livelli essenziali delle prestazioni e i diritti contemplati dal testo costituzionale sono diritti che hanno un significato solo se da essi ne derivano prestazioni di cui i cittadini posso avvantaggiarsi, come la salute e l’istruzione.

Alla luce di ciò il DDL de quo dovrebbe concretamente essere orientato ad individuare dei Livelli di prestazioni pubbliche, connessi ai diritti contemplati dalla nostra Costituzione, tutelati, applicati, salvaguardati con la stessa intensità su tutto il territorio nazionale. Da qui nasce un percorso che debba prevedere la definizione di questi Livelli
essenziali di prestazioni.

Si è consapevoli che il percorso non è assolutamente semplice perché nella legislazione di recente, ad esempio, i Lep sono stati introdotti in riferimento alla necessità di avere un certo numero di asili nido, mentre per altre materie, in altri settori, manca questo riferimento e si dovrà aspettare che si producano studi e ambiti di riferimento, come anche che la politica assuma le sue decisioni per definire tutto questo.

Un primo punto di osservazione su cui il DDL non appare chiaro è costituito dai vari ambiti in cui attivare la differenziazione e che dipendono dai singoli accordi che le Regioni prenderanno con lo Stato. Il dato critico e significativo è che sono tante le materie su cui si può attivare la differenziazione (es Salute e dell’istruzione) ma prima di definire si deve partire dalla necessità di ipotizzare, immaginare, quale possa essere il livello della
prestazione sanitaria per esempio per curare una determinata patologia, quindi stabilire che in tutto il territorio nazionale chi ne è affetto riceverà la medesima prestazione da parte di tutti i soggetti coinvolti nella garanzia della salute. Teoricamente, non ci dovrebbe essere nessuna differenza nella cura tra un cittadino siciliano, uno veneto o uno lombardo, territori questi ultimi che più pressano per la differenziazione.

È chiaro che il Livello essenziale di prestazione è un elemento di uguaglianza su  base minimale e non possiamo escludere che la regione interessata a quel livello, nel caso in cui abbia delle risorse proprie, possa aggiungere delle prestazioni che altre regioni non saranno in grado di assicurare. Orbene Il dato economico è significativo di una situazione di deficienza strutturale perché ci dice che non basterebbe l’individuazione di un livello essenziale di prestazione per rendere omogenee le prestazioni stesse.

La trattazione del regionalismo differenziato quindi non può prescindere dalla tematica del federalismo fiscale.
Occorre premettere che il riconoscimento effettivo dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, così come previsto dall’art 119 Cost., costituisce uno degli snodi principali per la realizzazione di un percorso federalista, così come era nelle intenzioni del Legislatore del 2001. Per quello che più ci riguarda, la procedura deve attuarsi “nel rispetto dei principi di cui all’art. 119”, e quindi innanzitutto nella sussistenza della sostenibilità finanziaria regionale.

In tale quadro va evidenziata la necessità di definire sistemi di finanziamento e meccanismi di perequazione che escludano lesioni del principio di eguaglianza e una disparità di tutela dei Cittadini Italiani in ragione del territorio in cui essi risiedono, soprattutto in relazione ai “livelli essenziali delle prestazioni” concernenti i diritti civili e sociali.

La Corte costituzionale in una delle prime decisioni (sentenza n. 88 del 2003 ) sul tema aveva già evidenziato come il Legislatore statale disponga di un “fondamentale strumento per garantire il mantenimento di un’adeguata
uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti” anche se in un quadro di una accresciuta autonomia regionale e federalismo fiscale in seguito duramente colpiti e ridimensionati dalla crisi economico-finanziaria. Ed è proprio il tema dei diritti sociali tra cui il diritto alla salute o quello relativo all’istruzione che merita senza dubbio un esame scrupoloso ed approfondito sui confini da stabilire ex ante al fine di pervenire ad un corretto processo autonomista nella cornice del principio unitario.

Scontiamo un peso storico, ricordiamo però che per la Costituzione attuare l’autonomia differenziata, significa rispettare il principio del dovere di solidarietà sociale ed il principio di uguaglianza, formale e sostanziale. Tutte le volte in cui uguaglianza e unità della Repubblica verranno messe in dubbio da scelte politiche che, più che sviluppare logiche di solidarietà, introducano elementi di differenziazione ed egoismi che non fanno bene al Paese la previsione normativa non potrà che essere illegittima.

In linea sempre generale il DDL presenta un aspetto positivo ma su esso purtroppo prevale un rilevante aspetto negativo. Positiva la volontà di sottolineare la valorizzazione della dimensione dell’autonomia e di immaginare le regioni non come soggetti satelliti che girano attorno allo stato senza capire bene cosa devono fare, ma come soggetti
attraverso i quali si possa costruire un ordinamento autenticamente democratico in cui i cittadini siano partecipi della cosa pubblica.

L’aspetto negativo sono le incertezze che attengono ai rapporti finanziari, alle risorse economiche, a fronte di un Sud del Paese che ha un enorme bisogno di risorse e che ha problemi strutturali storici che andrebbero risolti, attraverso un percorso reale, fattivo ed in tempi brevi capace di assicurare una risposta unica, certa e definitiva.

Il quadro delineato dal DDL appare invero caratterizzato da un’architettura che
tende a creare asimmetrie all’interno di un regionalismo asimmetrico.
Ciò posto con riferimento alle singole previsioni contenute nel DDL si rileva
quanto segue:
L’art 1 chiarisce che il contenuto del DDL definisce i princìpi generali per
l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della
Costituzione, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese
fra lo Stato ed una Regione.
Il comma 2 stabilisce che l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e
condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, terzo comma, della
Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, è consentita
subordinatamente alla determinazione, nella normativa vigente alla data di
entrata in vigore della presente legge
Si precisa anche che i LEP indicano la soglia costituzionalmente necessaria e
costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti e per erogare le
prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e
trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali e per
favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei
divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali.
Date le finalità sarebbe necessario inserire all’interno dell’art 1 DDL un esplicito
richiamo all’art 2 Cost. fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei
soggetti meno abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio
costituzionale e garanzia di determinazione dei LEP orientata in tal senso.
Nulla da rilevare in ordine all’art 2 il cui carattere ordinamentale, non fa sorgere
osservazioni .
All’articolo 3 del Ddl si legge che “i livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale e i relativi costi e fabbisogni standard sono determinati con uno o più
decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”.
Su tale previsione si esprimono perplessità sulla fonte scelta, posto che con la
determinazione dei LEP da parte del Governo e non dal Parlamento le Aule di
Camera e Senato potranno soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal
Governo.
Occorre, a questo punto, soffermarsi con maggiore attenzione sulla fonte che il
disegno di legge prevede per la definizione dei LEP, per il fatto che viene indicata
l’approvazione attraverso un atto amministrativo – il decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri – che può provocare più di una perplessità se si considera
la cornice costituzionale che lo concerne.
La collocazione di tale categoria nella disposizione della Carta fondamentale, che
sancisce il criterio di riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le
Regioni, conduce inevitabilmente a ragionare su fonti primarie: e non solo la
fonte, ma anche la procedura da rispettare per fissare contenuti che danno
consistenza ai diritti, sono aspetti sì procedurali, ma che necessariamente
incidono sulla sostanza dei medesimi, come già da tempo la dottrina più avvertita
ha raccomandato.
La potestà esclusiva dello Stato in materia è legislativa, portandosi poi dietro
anche la fonte di carattere secondario: ma non perché si possa scegliere in
maniera indifferente fra legge e regolamento, quanto piuttosto perché, sempre a
norma dell’art. 117, co. 2, Cost., laddove ci sia titolarità per lo Stato in termini di
legislazione primaria, vi deve essere titolarità anche sul terreno della normazione
secondaria. Difficilmente si può immaginare che la seconda intervenga senza che
la prima abbia posto un quadro completo da cui partire, per cui dal 2001 in avanti
l’impostazione da attendersi non poteva che essere di un diretto impegno del
Parlamento nel determinare le prestazioni che per qualunque persona devono
essere fruibili sul territorio nazionale.
Ricordiamo che il richiamato art 117Cost lett m) parla espressamente di legge
ordinaria mentre nel presente articolo si parla di DPCM con tutte le conseguenze
sullo schema dei controlli che, in tal caso, escluderebbero pure la Corte
Costituzionale.
Del resto, è obbligo rilevare che il terreno sul quale si muove la normativa dei
LEP impinge in maniera solida e tagliente sulla fascia assai sensibile dei diritti
sociali, per la disciplina dei quali appare appropriata, in prima battuta, la legge. Il
quadro dell’applicazione che ci consegna la storia è di lettura non univoca. Il
primo provvedimento di classificazione dei LEP, ed in particolare proprio quelli
forse più nevralgici, relativi all’assistenza sanitaria, risale al 2001, con un decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri; e la sua rivisitazione nel 2017 è
avvenuta nuovamente con la medesima fonte. In entrambi i casi il riferimento di
normazione primaria è stato il d. lgs. n. 502/1992 (noto come decreto De
Lorenzo), e dunque una disciplina che è insieme di principio e di struttura del
sistema pubblico di sanità.
Questo, nella sua prima disposizione prevede che insieme ai livelli di prestazione
abbia luogo “contestualmente l’individuazione delle risorse finanziarie destinate
al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite
per l’intero sistema di finanza pubblica”. La classificazione delle prestazioni
sanitarie, che garantiscono il diritto fondamentale alla tutela della salute, è stata a
suo tempo effettuata in assenza di un ulteriore e specifico intervento legislativo
del Parlamento, appositamente dedicato a quei “livelli essenziali”, che fornisse
una cornice di principio mirata ai servizi da garantire. Nel 2001 il Governo si è
così pronunciato su quella soglia di eguaglianza che deve essere assicurata a
mezzo di un testo tecnico che ha assunto la forma di un nomenclatore. Una nuova
definizione per via legislativa è poi avvenuta attraverso una fonte primaria: la
legge di bilancio 2022, la quale è arrivata anche a formularne una qualificazione
generale, che collega i livelli essenziali a condizioni di ampio bisogno. L’art. 1,
co. 159, l. n. 234 del 2021 li posiziona all’interno della formula che segue: “gli
interventi, i servizi, le attività e le prestazioni integrate che la Repubblica assicura
con carattere di universalità su tutto il territorio nazionale per garantire qualità
della vita, pari opportunità, non discriminazione, prevenzione, eliminazione o
riduzione delle condizioni di svantaggio e di vulnerabilità”. Tale normativa ha
poi rimandato – si vedano i commi 167 e 169 – rispettivamente ad un decreto del
Presidente del Consiglio e ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche
sociali per la determinazione delle modalità attuative dei LEP per le persone
anziane non autosufficienti e i LEP negli altri settori del sociale individuati
dall’art. 22 della Legge quadro in materia assistenziale n. 328/200018. La
recentissima l. n. 197/2022 – legge di bilancio 2023 – ha individuato i passaggi
procedurali necessari per la definizione dei LEP. Il comma 793 di questa
disciplina ha affidato ad una Cabina di regia varie attività. Anzitutto il compito di
conseguire, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, entro sei mesi la
ricognizione della normativa statale e delle funzioni esercitate dallo Stato e dalle
Regioni a statuto ordinario in ognuna delle materie di cui all’articolo 116, co.3,
Cost.; nonché il compito di effettuare una ricognizione della spesa storica
dell’ultimo triennio, sostenuta dallo Stato in ciascuna Regione. Alla Cabina
compete inoltre individuare le materie o gli ambiti di materie che sono riferibili ai
LEP, sulla base delle ipotesi tecniche formulate dalla Commissione tecnica per i
fabbisogni standard; e la determinazione dei LEP, a partire dalle ipotesi tecniche
formulate dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard.
Dalla Cabina di regia ci si attende che concluda i suoi lavori predisponendo uno o
più schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che non possono
più declinare i LEP a elenco, ma devono individuare la correlazione con costi e
fabbisogni standard.
Vi è chi si è interrogato sulla sorte dei LEP in materia di assistenza sociale, se si
considera che tale materia non è tra le materie concorrenti all’interno delle quali
possono essere “pescati” gli ambiti di differenziazione. La questione presenta
effettivamente profili problematici, se si considera che oggi tale settore di
intervento pubblico si ritiene rimesso alla potestà c.d. residuale delle Regioni: è
un settore di politiche consegnato all’autonomia dei territori – e alle deliberazioni
delle entità locali – e dunque da un lato non ha senso ragionare sulla materia
sociale come prospettiva di differenziazione; ma, d’altro canto, è assolutamente
ragionevole pretendere che anche per i servizi sociali siano declinati i LEP, che
anche senza il passaggio all’autonomia asimmetrica non devono essere sottratti
all’operazione di omogeneizzazione della soglia di essenzialità in vista della
garanzia dell’eguaglianza.
Anche perché la definizione dei livelli essenziali dovrebbe proprio transitare
attraverso l’intesa tra Stato e Regioni: su questo irrinunciabile coinvolgimento
delle autonomie la dottrina è stata chiara, richiamandosi del resto alle posizioni
espresse dal giudice delle leggi.
Le sentt. n. 88 del 2003, 134 del 2006 e 162 del 2007 hanno ritenuto che la
determinazione concordata dei livelli essenziali tra lo Stato e le Regioni sia
costituzionalmente necessitata. È dunque comprensibile che essi non siano
indicati nel disegno di legge governativo, posto che non ricadono tra le
(potenziali) ventitré materie rispetto alle quali le Regioni possono candidarsi ad
un’estensione di autonomia; mentre appare dissonante la scelta di non
immaginare, in prospettiva, la determinazione dei LEP per le prestazioni ex art.
38, co. 1, Cost., che in misura massima necessitano di un argine di omogeneità
per non rischiare trattamenti di inaccettabile discriminazione per i Cittadini
Italiani dei diversi territori.
Discriminazioni che si tradurrebbero inevitabilmente in una lesione del dovere di
solidarietà sociale e del principio di sussidiarietà specialmente di quella
orizzontale
Ricordiamo che la differenziazione è da considerarsi come un corollario del
principio di sussidiarietà in un processo di razionalizzazione dimensionale delle
competenze tra centro e periferia. Se ne deve inferire che la dislocazione
differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è affatto un
adempimento costituzionalmente necessario, o addirittura un “diritto” di alcune
Regioni (o dei loro “popoli”). Deve invece considerarsi come possibilità di
adeguamento del quadro dei poteri, ove prevale l’esigenza di una più piena
attuazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale e dopo dei suoi
corollari
Gli articoli 4 e 5 sono dedicati al trasferimento di funzioni ed al relativo
finanziamento.
Si osserva che a fronte della previsione dell’articolo 5 , comma 2 , secondo cui
l’intesa di cui all’articolo 2 individua le modalità di finanziamento delle funzioni
attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali
maturato nel territorio regionale, sarebbe più utile prevedere una distribuzione
delle responsabilità fiscali per avere delle politiche finanziate in modo
responsabile, perchè la compartecipazione si collega alla produttività dei territori
dello Stato Italiano, con la conseguenza che territori maggiormente produttivi
avrebbero introiti maggiori di altre realtà territoriali con una produttività
storicamente ridotta e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza
con l’evidente rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo
in grave pericolo l’unità nazionale.
Secondo il DDL il trasferimento delle funzioni e delle risorse corrispondenti avrà
luogo soltanto a seguito della determinazione dei relativi livelli essenziali delle
prestazioni (LEP) che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ma
non viene indicato in modo chiaro con quale capacità fiscale si intende garantirli.
Il riferimento all’utilizzo della spesa storica per quelle regioni che intendono
chiedere maggiore autonomia differenziata, è un indicatore superato ed il
riferimento ai fabbisogni standard farebbe allargare ancora di più la forbice della
disomogeneità territoriale delle regioni italiane.
Nella proposta del Governo si cita la necessità di avere “le risorse
corrispondenti” ( art 5 DDL) però non si precisa con quale parte della tassazione
si vuole finanziare l’autonomia differenziata e perseguire la rimozione degli
squilibri economici e sociali territoriali.
Ad esempio la Basilicata, la Campania, la Puglia, la Calabria, la Sicilia, con la
metà della capacità fiscale in termini di procapite nazionale (al netto
dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa) non potrebbero garantire i LEP
ai loro concittadini se presentassero una scarsa capacità fiscale strutturale per
abitante (è noto che si assesta appena sopra i 4.000 €)
In ordine agli artt 6, 7, 8 e 9, nonostante in quest’ultimo si parli di (Misure
perequative e di promozione dello
sviluppo economico, della coesione e della solidarietà socialenon sembra
sussistere alcuna traccia al fondo perequativo di solidarietà nazionale che
permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali.
Conseguentemente di fatto, con questa proposta non si manifesta la volontà di
superare gli squilibri territoriali .
Fino a che le regioni del meridione ( ai fini perequativi vanno integrate le
capacità di entrate da economia sommersa delle regioni per avere un dato più
affidabile della loro effettiva capacità fiscale) non raggiungono, con un fondo
dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante non si può
affrontare per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata a meno che
non si preveda un fondo di solidarietà nazionale vincolato a sanare le disparità
delle capacità fiscali territoriali, le cui risorse vengono distribuite con funzioni,sia
di compensazione delle risorse attribuite in passato, sia di perequazione.
Un ultimo riferimento non può non essere fatto all’art 10 che estende la
differenziazione anche alle regioni speciali, come parrebbe potersi desumere
dall’art. 10 comma 2 del DDl Calderoli. Come già è stato rilevato da tempo, le
regioni a cui fa riferimento l’art. 116.3 Cost. Deve essere interpretato come
contrapposizione alle destinatarie prevalenti dell’articolo che sono appunto le
regioni speciali.
Tale estensione, vista la stessa formulazione della norma costituzionale, pare
illegittima.
Così facendo si aggiungerebbe asimmetria ad asimmetria, con una rincorsa delle
regioni speciali all’estensione delle competenze, che in questo caso non sarebbe
riconosciuta a tutte le regioni, ma solo ad alcune di esse, con riguardo alle
specifiche esigenze di quella regione.
Inoltre, la clausola “generale” di maggior favore, presente nell’art. 10 della legge
cost. n. 3/2001, non può prevalere sulla disciplina speciale contenuta nel comma
3 dell’art. 116 introdotta con la stessa legge costituzionale.
Le fondate superiori preoccupazioni rappresentate, che disegnano ad oggi una
potenziale frammentazione delle politiche pubbliche, non vogliono essere
connotate come una critica, ma stimoli ad evitare un drastico peggioramento di
squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e che
potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di
preoccupanti spinte secessioniste

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